La Turchia, primo Paese, il 24 agosto, ad intervenire via terra nella polveriera siriana, sin dall’inizio della guerra civile si era dimostrata riluttante a prendere parte al conflitto per ragioni al contempo politiche e militari: intervenire nella guerra siriana, da tempo confermatasi una guerra per procura, avrebbe rischiato di peggiorare le relazioni regionali turche, in particolare con Russia, Iran e Iraq.
L’esplosione di un kamikaze il 20 agosto a Gaziantep ha fornito il casus belli per questo cambio di rotta: il presidente Recep Tayyip Erdoğan ha definito indispensabile l’ingresso in Siria per combattere il terrorismo. La Turchia ha subito 15 attacchi terroristici negli ultimi 14 mesi, di cui sei imputati, seppur mai rivendicati, all’autoproclamatosi “stato islamico”. Ma ci sono altre ragioni che spiegano la decisione turca.
L’unione dei cantoni curdi che fa paura Il 14 agosto, dopo due mesi di scontri, le forze curde del Ypg hanno liberato la città di Manbij dall’assedio dei jihadisti, varcando la linea rossa dell’Eufrate e alimentando le preoccupazioni di Ankara verso l’espansione della zona di controllo curda. I tre cantoni curdi nel nord della Siria, autoproclamatisi regione federale nel marzo di quest’anno, sono separati da un corridoio controllato dallo “stato islamico”di circa 110 chilometri che si estende dall’Eufrate fino al cantone di Afrin.
Le speranze di una continuità territoriale per le zone sotto controllo curdo si sono accese con la liberazione di Manbij, primo passo delle forze del Ypg ad ovest dell’Eufrate. Per la Turchia, l’unione dei tre cantoni del Rojava, così come viene chiamata la zona a maggioranza curda in Siria, è un incubo da scongiurare, perché determinerebbe l’avvicinarsi della prospettiva di una Siria federale al termine della guerra civile e la conseguente nascita di una regione autonoma curda con la quale la Turchia condividerebbe buona parte dei suoi confini nel sud est.
Oltre lo “stato islamico” Considerando la ormai consolidata presenza del governo regionale del Kurdistan in Iraq, ad un passo dal divenire uno stato autonomo, Ankara teme che una soluzione simile in Siria alimenterebbe le spinte irredentiste della minoranza curda in Turchia, oltre che a rafforzare militarmente il Partito dei Lavoratori del Kurdistan(Pkk).
Il governo non fa segreto di questo obiettivo durante l’avanzata verso Jarablus: il ministro della Difesa turco Fikri Isik, a poche ore dell’inizio dell’operazione, ha dichiarato che è una priorità del governo turco ripulire la zona dai jiihadisti, ma è al contempo indispensabile assicurarsi che la stessa non sia occupata dalle forze del Ypg/Pyd.
Di fatti, la richiesta del governo turco di assicurarsi il controllo di quella striscia di terra che va da Afrin a Jarabulus non è nuova: già nel luglio 2015, Erdoğan aveva promosso l’idea di definire una no-flying zoneper creare una zona cuscinetto proprio nel corridoio dove in questi giorni combattono i carrarmati turchi. Questa sarebbe servita anche per assicurare una zona sicura per i profughi siriani ed evitarne così l’esodo in Turchia.
Politica estera turca in evoluzione L’ingresso in Siria rischia di gettare la Turchia in un’instabilità peggiore di quella attuale. Sul fronte interno sta già producendo una ri-radicalizzazione del conflitto con la minoranza curda e i guerriglieri del Pkk, a poco più di un anno dalla fine del naufragato processo di pace.
Molti osservatori, inoltre, si interrogano sulla capacità dell’esercito di mantenere questo fronte, considerate le epurazioni nei ranghi militari avvenute a seguito del tentato golpe del 15 luglio. Al contempo, la Turchia rischia di complicare le sue relazioni regionali e internazionali, a soli due mesi dalla nuova direzione in politica estera volta ad uscire dal crescente isolazionismo regionale che aveva permesso la riapertura delle relazioni con Israele e Russia e aveva fatto ben sperare in un riavvicinamento anche all’Egitto e alla Siria.
L’intervento della Turchia in Siria apre numerosi scenari e interrogativi sul futuro della guerra, ma anche della situazione domestica turca. Al tempo stesso, però, questa scelta rivela molto delle priorità di Ankara. L’eventualità di una enclave curda nel suo sud est è percepito dallo stato turco come il più temuto pericolo per la sicurezza nazionale.
Nessun governo vorrebbe mai essere accusato di aver permesso ai curdi di creare un nuovo stato, a maggior ragione l’Akp di Erdoğan che ha da mesi adottato una retorica nazionalista per legittimare il suo crescente autoritarismo. Il pragmatismo politico finisce lì dove comincia la questione curda e questa sembra essere una regola d’oro dei governi turchi.
Bianca Benvenuti è visiting researcher allo IAI.
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