giovedì 15 settembre 2016

Siria: la difficile tregua

Medio Oriente
Siria, punti chiave della fragile intesa
Roberto Aliboni
12/09/2016
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Mettere fine alle ostilità e inaugurare negoziati politici fra le parti siriane secondo quanto deciso il 18 dicembre 2015 dal Consiglio di Sicurezza con la Risoluzione 2254. È questo l’obiettivo del faticoso accordo raggiunto tra Russia e Stati Uniti a Ginevra.

L’oggetto immediato dell’accordo non è il negoziato fra i siriani bensì un’intesa fra Russia e Usa affinché le parti si convincano a negoziare. Il bipolarismo sembra di nuovo aleggiare sul mondo. Sarà in grado quest’accordo di raggiungere il suo obbiettivo e aprire la porta al processo di pacificazione della Siria? L’inviato Onu per la Siria Staffan De Mistura lo ha inflessibilmente appoggiato, ritenendolo la chiave della soluzione. Molti altri non ne sono così sicuri.

Azioni congiunte e contenimento dell’aviazione siriana
Il contenuto dell’accordo risale alla proposta di collaborazione avanzata nel luglio scorso dagli Usa, dopo diversi passi con la Russia rimasti senza effetto nel corso del semestre precedente. Si prevede una campagna congiunta delle forze russe e statunitensi sia contro l’autoproclamatosi “stato islamico”, sia contro Jabhat al-Nusra (diventata nel frattempo Jabhat Fateh al-Sham) e altre minori forze jihadiste dell’opposizione a Assad.

A tal fine, si prevede la costituzione di un comando congiunto (“Joint Implementation Center”) nel cui ambito i due governi scambierebbero intelligence e tutto il necessario a procedere a operazioni militari integrate. In cambio la Russia non colpirebbe forze siriane non jihadiste e terrebbe a bada l’aviazione siriana, limitandone l’intervento ad aree e obbiettivi decisi congiuntamente dalle due parti.

Il relativo ritardo con il quale la proposta Usa è stata approvata è dovuta a due motivi. Innanzitutto, l’esecuzione della proposta richiede una mappatura assai problematica per distinguere le aree occupare da Jabhat Fateh al-Sham da quelle occupate dai gruppi non jihadisti posto che molti di questi gruppi combattono in coalizione con Jabhat (e che le coalizioni cambiano nel tempo). In secondo luogo, l’accordo si scontra con numerosi e importanti settori dell’amministrazione e dell’opinione pubblica statunitense.

Negli Stati Uniti c’è una sostanziale sfiducia nei russi, giustificata dal fatto che la vittoriosa pressione militare che il presidente Bashar Assad ha esercitato impedendo all’Onu di mettere in pratica la Risoluzione 2254 in definitiva è stata resa possibile dall’appoggio aereo costantemente fornito da Mosca.

L’amministrazione lo sa bene, tanto che Kerry nelle dichiarazioni rese ai media dopo la sottoscrizione dell’accordo ha esordito dicendo che “ the United States is going the extra mile here because we believe that Russia and my colleague [Lavrov] have the capability to press the Assad regime to stop this conflict and to come to the table and make peace”. Ma possono farlo proprio quelli che finora hanno promosso con una mano il negoziato e con l’altra le forze di Assad?

Jabhat Fateh al-Sham nel mirino: l’alienazione dei sunniti
L’accordo si scontra soprattutto con le sue importanti implicazioni politiche. Innanzitutto, finisce di alienare il campo sunnita, cioè i maggiori alleati tradizionali degli Usa nella regione. La concentrazione contro Jabhat Fateh al-Sham, che finora gli Usa hanno compreso nella lista dei “terroristi” ma non in quella degli obbiettivi militari, è un grave colpo per le opposizioni non jihadiste - incluse quelle più vicine agli Usa - perché la loro capacità militare a combattere Assad dipende in modo determinante proprio da Jabhat Fateh.

L’accordo è perciò visto dall’opinione sunnita come uno sviluppo disastroso, destinato a dare ad Assad ancora maggiori probabilità di vincere la guerra e reimporre la sua tirannia ai sunniti (potrebbe fare eccezione la Turchia, che negli ultimi sviluppi ha fatto cenno a un suo cambiamento verso Assad, probabilmente preparandosi a trattare la fine dell’appoggio russo e soprattutto americano ai curdi).

Ma dall’Arabia Saudita all’Egitto l’accordo appare come l’ultimo grave episodio del distacco degli Usa dai suoi alleati sunniti a partire dalla guerra contro l’Iraq del 2003. Agli occhi di molti statunitensi, non solo repubblicani, appare una seria perdita d’influenza degli Usa nella regione a favore di una Russia che sembra invece acquisire in essa un ruolo autorevole e crescente.

Acquisire questo ruolo è stato sin dall’inizio uno degli obbiettivi strategici di Mosca. L’accordo conferma il raggiungimento di questo obbiettivo. Molti negli Usa e in Europa non sono poi tanto impressionati dall’ascendente che Mosca acquista in Medio Oriente (qualcuno lo ritiene anche positivo) ma dal risultato che ciò può avere in Ucraina, nel vicinato orientale dell’Ue, in Turchia e quindi sulla stessa Europa.

Assad e il suo regime nel futuro della Siria
Perciò, l’accordo suscita molte perplessità. Le opposizioni alla sua conclusione negli Usa, sia pure con grandi difficoltà, sono state superate ma forse solo perché chi ha detto sì guarda alla prossima presidenza e inoltre pensa che l’accordo è fragile, che la sua attuazione incontra una forte opposizione in Siria e nella regione e che la sua esecuzione è affidata a un partner inaffidabile che lo farà fallire.

In effetti, l’accordo è fragile. Esso entrerà in vigore dal 12 settembre con l’aspettativa che le operazioni militari di Damasco, che l’accordo reprime, saranno severamente contenute, permettendo così l’inizio dei negoziati.

Ma tutto ciò è appeso a un filo: non è sicuro che Assad si conformi ai piani; non è sicuro che i russi possano o vogliano veramente costringerlo ad attenersi a quanto sarebbe deciso dal “Joint Implementation Centre”; non è sicuro che Iran e Hezbollah appoggino l’accordo (tutto è andato avanti come se non esistessero, ma è noto che ci sono divergenze sul futuro della Siria). Infine, è certo che le opposizioni non jihadiste non accetteranno di negoziare su queste premesse e non pochi raggiungeranno Jabhat Fateh.

Da Londra, l’opposizione ha recentemente proposto un piano che prevede una transizione in cui ci sia ancora Assad per arrivare alla transizione prevista dalla Risoluzione 2254 dalla quale il presidente dovrebbe essere invece completamente escluso.

In realtà, è ormai chiaro che Assad e il regime faranno parte della transizione con il consenso dell’amministrazione Usa. Ma, ancora una volta, ciò potrebbe non andare oltre le elezioni di novembre. Perciò, non solo siamo di fronte a un accordo politicamente dubbio, ma anche molto fragile. Potrebbe essere questo il motivo per cui Lavrov l’ha siglato.

Roberto Aliboni è consigliere scientifico dello IAI.
 

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