martedì 20 settembre 2016

Turchia. Accordo sui migranti

La gestione dei migranti avvicina Ankara a Bruxelles
Gerardo Fortuna
19/09/2016
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La notizia positiva per l’Europa è che l’accordo con la Turchia sui migranti è salvo, almeno per ora. Quella negativa è che l’equilibrio precario su cui si fonda l’intesa rischia di sbilanciarsi a favore di Ankara col passare dei mesi. La questione dei rifugiati sta ribaltando i ruoli e ora sembra essere l’Europa nella posizione di dover rincorrere la Turchia.

L’azione della macchina diplomatica europea è diventata evidente a fine agosto, quando è arrivata in Turchia una missione con funzioni esplorative, guidata dal viceministro tedesco agli affari europei Michael Roth, accompagnato da una delegazione di tecnici della Commissione e del Seae. A inizio settembre hanno fatto tappa ad Ankara anche il commissario alle migrazioni Dimitris Avramopoulos e il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz.

L’apice dell’azione diplomatica si è però avuto con l’incontro di alto livello di venerdì 9 settembre, che ha visto contrapporsi da una parte il capo della diplomazia turca Mevlüt Çavusoglu e il ministro per gli affari europei Ömer Çelik, dall’altra l’Alto rappresentante Federica Mogherini e il commissario all’allargamento Johannes Hahn.

Liberalizzazione dei visti
L’accordo è ad oggi l’unica proposta di contenimento del fenomeno migratorio messa effettivamente in piedi dall’Ue e ha portato risultati operativi, congelando, nei fatti, la rotta balcanica. La stessa cancelliera Angela Merkel ha difeso più volte il patto e ha anche recentemente presentato l’ipotesi di un utilizzo come modello per Tunisia ed Egitto.

In cambio, la Turchia ha chiesto all’Europa la liberalizzazione dei visti all’ingresso in Ue per i propri cittadini e l’assistenza finanziaria nella gestione dei rifugiati sul suolo turco. Anche se la revoca del regime dei visti era prevista entro ottobre 2016, le parti hanno già convenuto di rimandare la questione a fine anno.

Tutto è bloccato finché gli Stati membri non si riterranno soddisfatti, e cioè finché la Turchia non rispetterà i 72 parametri posti a condizione per l’abolizione del regime dei visti. Ma da maggio sono sempre ferme a 5 le richieste ancora da adempiere, delle quali una, quella relativa alla nuova legge antiterrorismo di cui Ankara dovrebbe dotarsi, sembra davvero lontana dal poter essere mai soddisfatta.

Arrivano le carte elettroniche per i profughi
Se la questione dei visti rappresenta la vera spada di Damocle per Bruxelles, procede, seppur con qualche ritardo, la cooperazione per fornire assistenza, non solo umanitaria. Il sostegno finanziario alla Turchia rappresenta l’aspetto sgradito all’opinione pubblica europea e gli aiuti vengono ancora percepiti come un assegno in bianco da 3 miliardi intestato a Erdogan.

In realtà la somma è destinata al finanziamento di un complesso programma di assistenza che vede tra i principali beneficiari gli storici partner umanitari dell’Ue, tra cui diverse agenzie Onu come l’Unhcr e il Wfp e alcune importanti Ong come la Croce Rossa.

Alla Turchia spetta il coordinamento operativo sul campo e una piccola parte di finanziamento diretto, principalmente indirizzata al proprio Ministero dell’istruzione per il rimborso dei programmi educativi. Ankara non può però disporre liberamente della somma e ogni euro stanziato è soggetto a una procedura di controllo di effettiva destinazione da parte degli audit europei.

In virtù della scarsa popolarità dell’aspetto finanziario, si è potuto notare almeno da luglio un cambiamento nella strategia comunicativa della Commissione. Dai primi comunicati stampa contenenti solo freddi numeri sull’impiego delle risorse, viene ora dato più spazio ai diversi progetti approvati. L’ultimo dei quali è stato entusiasticamente presentato come il più grande programma d’aiuto nella storia dell’Ue sia per la somma record destinata, 348 milioni di euro, sia per le modalità operative.

L’obiettivo è infatti quello di consegnare la maggior parte della somma in modo diretto, e cioè tramite delle carte elettroniche che saranno date a quasi 1 milione di profughi, che vedranno così preservata la loro dignità di scelta nel decidere come utilizzarli.

Una relazione più dinamica 
In questi mesi dunque la cooperazione tra Turchia e Ue non si è fermata, anzi sono stati messi in cantiere grossi progetti per l’immediato futuro. Questo mostra come le relazioni bilaterali si stiano evolvendo: tradizionalmente statiche, stanno ora acquisendo dinamicità, grazie anche a un pragmatismo politico bilaterale.

La condivisione di interessi comuni, in primis la questione dei rifugiati, sta contribuendo a far evolvere in senso politico un rapporto che finora si era fondato su un sistema di aspettative reciproche funzionali a determinati obiettivi. In questo senso, l’azione diplomatica di inizio settembre dell’Ue è stata necessaria, perché ha mostrato quella vicinanza politica che era stata disattesa negli scorsi mesi e che adesso la Turchia ritiene importante tanto quanto l’ingresso nel mercato comune.

Gerardo Fortuna è ricercatore Istrid e collaboratore di Limes e Ispi.

lunedì 19 settembre 2016

Turchia: industria della difesa rafforza i legami tra Ankara e Waschington

L’azienda aerospaziale turca TAI (Turkish Aerospace Industries), assieme al Sottosegretariato per le Industrie della Difesa ed altre tre aziende nazionali, ha siglato un importante contratto per la coproduzione in loco dell’elicottero da trasporto tattico T-70 Black Hawk con l’azienda americana Sikorsky/Lockheed Martin. La commessa, dal valore pari a 3,5 miliardi di dollari, mira alla costruzione iniziale di 109 esemplari del velivolo in oggetto per le forze di Esercito, Aeronautica, Comando Generale della Gendarmeria, Forze Speciali e di Sicurezza e Corpo Forestale. Sulla base delle previsioni fatte dal Sottosegretariato del governo di Ankara sul fabbisogno interno dei prossimi anni, si prevede che verranno raggiunti i 300 esemplari prodotti per le sole esigenze nazionali. L’accordo ha previsto anche importanti licenze per l’export che permetteranno al governo turco introiti di oltre un miliardo di dollari derivanti dalla vendita dell’elicottero a Paesi terzi.
Vista la possibilità di installare una vasta di gamma di mitragliatrici, razziere e missili controcarro Hellfire, il velivolo S-70 è idoneo a condurre non solo missioni di trasporto ma anche di appoggio tattico e di evacuazione feriti.
La scelta della produzione su licenza dei Black Hawk rafforza i legami tra Ankara e Washington in una fase di rapporti politico-militari piuttosto delicati. Inoltre, permette alla Turchia di incrementare il proprio know-how elicotteristico portando avanti il processo di sviluppo dell’industria locale in vista di una maggiore indipendenza del comparto aerospaziale del Paese che rimane tra i principali obiettivi del Presidente Erdogan.
Fonte C.E.S.I. Intelligence e defence Upgrade n. 65

sabato 17 settembre 2016

Turchia: continua il clima di repressione

Turchia
Ankara e la caccia agli omosessuali
Fazila Mat
15/09/2016
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In una Turchia reduce da un colpo di stato fallito, dove dallo scorso 21 luglio è in atto lo stato d’emergenza, la Convenzione europea sui diritti umani risulta sospesa e l’attualità è segnata da migliaia di arresti e licenziamenti.

Un omicidio di estrema violenza e crudeltà ha portato alla ribalta un altro stato d’emergenza, quella della comunità Lgbt (Lesbiche, gay, bisessuali, transessuali). La vittima è Hande Kader, una ventitreenne transessuale il cui corpo mutilato e bruciato è stato ritrovato il 12 agosto scorso a Zekeriyaköy, alla periferia di Istanbul.

Kader era un'attivista Lgbt e lo scorso giugno si era trovata in prima linea nei Trans e Gay Pride di Istanbul, brutalmente ostacolati dalla prefettura della città. L’attivista, per potersi mantenere, faceva la prostituta così come la maggior parte delle transessuali in Turchia cui raramente sono aperte altre strade di impiego.

Nessuna legge contro l’omofobia
In Turchia non è considerato reato avere rapporti omosessuali o transessuali, ma mancano leggi specifiche che tutelino i diritti degli Lgbt, rendendoli estremamente vulnerabili. Nell’ultimo decennio, la lotta condotta da parte di diverse associazioni per il riconoscimento di tali diritti ha coinvolto anche alcuni partiti politici, in particolare il partito filo-curdo e progressista Hdp (Partito democratico dei popoli, che nel 2015 ha presentato anche un candidato Lgbt alle elezioni politiche) e parte del Partito repubblicano del popolo (Chp), contribuendo a dare maggiore legittimazione alle richieste della comunità.

Tuttavia, considerate le posizioni del governo conservatore islamista dell’Akp, le rivendicazioni delle persone Lgbt appaiono una lontana chimera. Il Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) ha infatti sempre escluso l’introduzione di una legge che punisca i crimini di matrice omofoba, mentre in anni più recenti ha bocciato la proposta, sostenuta dall’Hdp e dal Chp, di inserire nella nuova Costituzione una norma che vieti qualsiasi tipo di discriminazione sulla base all’orientamento sessuale.

Eppure nel 2002, proprio all’inizio dell’ascesa politica dell’Akp, il presidente Recep Tayyip Erdoğan (allora unicamente leader della formazione) aveva affermato che era “obbligatorio tutelare con la legge gli omosessuali all’interno del quadro dei loro diritti e delle loro libertà”. Parole che si trovavano in linea con l’impegno preso in quegli anni da Ankara di perseguire l’obiettivo di adesione all’Unione europea, Ue.

Gay Pride di Istanbul 
A partire dal 2003 Istanbul ha ospitato numerose edizioni del Gay Pride, riflesso dell’atmosfera positiva creata dalla prospettiva di ingresso nell’Ue. Nel 2013, anno delle proteste di Gezi Park, i trenta manifestanti che avevano preso parte alla prima edizione dell’evento erano diventati 50mila. Gli ultimi due anni sono stati caratterizzati da uno strenuo braccio di ferro tra le organizzazioni Lgbt e le autorità, nonché dal massiccio intervento della polizia contro i manifestanti, ma fino al 2015 è stato comunque possibile realizzare i Pride.

Quest’anno invece, per la prima volta dopo 13 anni, la manifestazione è stata vietata. La principale argomentazione per giustificare il divieto è stato “non urtare la sensibilità religiosa dei cittadini”, motivata dalla coincidenza del Gay Pride con il Ramadan, mese sacro per i musulmani. Una novità, vista la coincidenza delle due ricorrenze anche in anni passati.

L’edizione del 2016 sono state manifestate anche altre nuove “sensibilità” di carattere ultranazionalista. Così il gruppo Gioventù dell’Anatolia musulmana (Mülsüman Anadolu Gençliği) che ha lanciato un appello per una contro-manifestazione per fermare “i pervertiti privi di orgoglio”, e i membri dei Focolai Alperen (Alperen Ocakları, braccio giovanile dell’ultranazionalista BBP-Partito di Grande Unione) che si sono detti pronti ad impedire il Pride “ad ogni costo” perché “ci prendono in giro, ignorando i nostri valori in un mese sacro”.

Dai köçek alla discriminazione
Va tuttavia ricordato che, paradossalmente, il travestitismo è sempre esistito nella cultura ottomana, dove i köçek erano dei giovani maschi che avevano il compito di compiere delle danze con abiti femminili in occasione delle feste e delle cerimonie. Una tradizione che sopravvive anche oggi in alcune località anatoliche tra cui Kastamonu, dove uomini abbigliati con gonne, continuano l’usanza nei matrimoni e in altre celebrazioni.

Al di fuori della società turca elitaria e i quartieri alla moda di Istanbul dove i turchi omosessuali e transgender vivono all’interno di un ambiente relativamente confortevole, la vita degli Lgbt in Turchia non è per niente facile. Nella società caratterizzata spesso da tratti patriarcali e maschilisti, l’emarginazione comincia già a partire dalla famiglia di origine e si estende all’ambito della scuola, dell’università fino al mondo del lavoro.

Sono numerose le persone che a causa della pressione sociale preferiscono non esplicitare la propria identità sessuale. I transgender risultano essere tra quelli maggiormente discriminati. Secondo il rapporto di Transgender Europe sugli omicidi commessi contro i trans negli ultimi 8 anni (la ricerca arriva fino all’aprile 2016), la Turchia risulta al nono posto al mondo e al primo in Europa con 43 omicidi (seguita dall’Italia con 34).

A fare sempre più i conti con la violenza e le discriminazioni c’è un altro gruppo, quello dei profughi Lgbt fuggiti in Turchia dalle persecuzioni dei propri Paesi. Alla lunga lista dei crimini impuniti contro gli Lgbt si è aggiunto lo scorso luglio l’omicidio di un profugo siriano, Wisam Sankari, omosessuale, da un anno in Turchia.

Secondo la testimonianza degli inquilini, Sankari era già stato rapito e violentato una volta, ma la denuncia alla polizia non aveva sortito alcun risultato. Sequestrato per la seconda volta, Sankari è stato ucciso con diverse pugnalate ed è stato ritrovato con la testa tagliata.

Nel clima di repressione emerso dopo il tentato golpe del 15 luglio scorso la comunità Lgbt continua lo stesso a chiedere giustizia, anche se la sensazione di vulnerabilità è ancora più marcata.

Fazila Mat è corrispondente per la Turchia di Osservatorio sui Balcani e Caucaso. Giornalista freelance, collabora con l'agenzia di stampa Askanews. È coautrice di #GeziPark, coordinate di una rivolta (2013), Alegre Editore.

giovedì 15 settembre 2016

Siria: la difficile tregua

Medio Oriente
Siria, punti chiave della fragile intesa
Roberto Aliboni
12/09/2016
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Mettere fine alle ostilità e inaugurare negoziati politici fra le parti siriane secondo quanto deciso il 18 dicembre 2015 dal Consiglio di Sicurezza con la Risoluzione 2254. È questo l’obiettivo del faticoso accordo raggiunto tra Russia e Stati Uniti a Ginevra.

L’oggetto immediato dell’accordo non è il negoziato fra i siriani bensì un’intesa fra Russia e Usa affinché le parti si convincano a negoziare. Il bipolarismo sembra di nuovo aleggiare sul mondo. Sarà in grado quest’accordo di raggiungere il suo obbiettivo e aprire la porta al processo di pacificazione della Siria? L’inviato Onu per la Siria Staffan De Mistura lo ha inflessibilmente appoggiato, ritenendolo la chiave della soluzione. Molti altri non ne sono così sicuri.

Azioni congiunte e contenimento dell’aviazione siriana
Il contenuto dell’accordo risale alla proposta di collaborazione avanzata nel luglio scorso dagli Usa, dopo diversi passi con la Russia rimasti senza effetto nel corso del semestre precedente. Si prevede una campagna congiunta delle forze russe e statunitensi sia contro l’autoproclamatosi “stato islamico”, sia contro Jabhat al-Nusra (diventata nel frattempo Jabhat Fateh al-Sham) e altre minori forze jihadiste dell’opposizione a Assad.

A tal fine, si prevede la costituzione di un comando congiunto (“Joint Implementation Center”) nel cui ambito i due governi scambierebbero intelligence e tutto il necessario a procedere a operazioni militari integrate. In cambio la Russia non colpirebbe forze siriane non jihadiste e terrebbe a bada l’aviazione siriana, limitandone l’intervento ad aree e obbiettivi decisi congiuntamente dalle due parti.

Il relativo ritardo con il quale la proposta Usa è stata approvata è dovuta a due motivi. Innanzitutto, l’esecuzione della proposta richiede una mappatura assai problematica per distinguere le aree occupare da Jabhat Fateh al-Sham da quelle occupate dai gruppi non jihadisti posto che molti di questi gruppi combattono in coalizione con Jabhat (e che le coalizioni cambiano nel tempo). In secondo luogo, l’accordo si scontra con numerosi e importanti settori dell’amministrazione e dell’opinione pubblica statunitense.

Negli Stati Uniti c’è una sostanziale sfiducia nei russi, giustificata dal fatto che la vittoriosa pressione militare che il presidente Bashar Assad ha esercitato impedendo all’Onu di mettere in pratica la Risoluzione 2254 in definitiva è stata resa possibile dall’appoggio aereo costantemente fornito da Mosca.

L’amministrazione lo sa bene, tanto che Kerry nelle dichiarazioni rese ai media dopo la sottoscrizione dell’accordo ha esordito dicendo che “ the United States is going the extra mile here because we believe that Russia and my colleague [Lavrov] have the capability to press the Assad regime to stop this conflict and to come to the table and make peace”. Ma possono farlo proprio quelli che finora hanno promosso con una mano il negoziato e con l’altra le forze di Assad?

Jabhat Fateh al-Sham nel mirino: l’alienazione dei sunniti
L’accordo si scontra soprattutto con le sue importanti implicazioni politiche. Innanzitutto, finisce di alienare il campo sunnita, cioè i maggiori alleati tradizionali degli Usa nella regione. La concentrazione contro Jabhat Fateh al-Sham, che finora gli Usa hanno compreso nella lista dei “terroristi” ma non in quella degli obbiettivi militari, è un grave colpo per le opposizioni non jihadiste - incluse quelle più vicine agli Usa - perché la loro capacità militare a combattere Assad dipende in modo determinante proprio da Jabhat Fateh.

L’accordo è perciò visto dall’opinione sunnita come uno sviluppo disastroso, destinato a dare ad Assad ancora maggiori probabilità di vincere la guerra e reimporre la sua tirannia ai sunniti (potrebbe fare eccezione la Turchia, che negli ultimi sviluppi ha fatto cenno a un suo cambiamento verso Assad, probabilmente preparandosi a trattare la fine dell’appoggio russo e soprattutto americano ai curdi).

Ma dall’Arabia Saudita all’Egitto l’accordo appare come l’ultimo grave episodio del distacco degli Usa dai suoi alleati sunniti a partire dalla guerra contro l’Iraq del 2003. Agli occhi di molti statunitensi, non solo repubblicani, appare una seria perdita d’influenza degli Usa nella regione a favore di una Russia che sembra invece acquisire in essa un ruolo autorevole e crescente.

Acquisire questo ruolo è stato sin dall’inizio uno degli obbiettivi strategici di Mosca. L’accordo conferma il raggiungimento di questo obbiettivo. Molti negli Usa e in Europa non sono poi tanto impressionati dall’ascendente che Mosca acquista in Medio Oriente (qualcuno lo ritiene anche positivo) ma dal risultato che ciò può avere in Ucraina, nel vicinato orientale dell’Ue, in Turchia e quindi sulla stessa Europa.

Assad e il suo regime nel futuro della Siria
Perciò, l’accordo suscita molte perplessità. Le opposizioni alla sua conclusione negli Usa, sia pure con grandi difficoltà, sono state superate ma forse solo perché chi ha detto sì guarda alla prossima presidenza e inoltre pensa che l’accordo è fragile, che la sua attuazione incontra una forte opposizione in Siria e nella regione e che la sua esecuzione è affidata a un partner inaffidabile che lo farà fallire.

In effetti, l’accordo è fragile. Esso entrerà in vigore dal 12 settembre con l’aspettativa che le operazioni militari di Damasco, che l’accordo reprime, saranno severamente contenute, permettendo così l’inizio dei negoziati.

Ma tutto ciò è appeso a un filo: non è sicuro che Assad si conformi ai piani; non è sicuro che i russi possano o vogliano veramente costringerlo ad attenersi a quanto sarebbe deciso dal “Joint Implementation Centre”; non è sicuro che Iran e Hezbollah appoggino l’accordo (tutto è andato avanti come se non esistessero, ma è noto che ci sono divergenze sul futuro della Siria). Infine, è certo che le opposizioni non jihadiste non accetteranno di negoziare su queste premesse e non pochi raggiungeranno Jabhat Fateh.

Da Londra, l’opposizione ha recentemente proposto un piano che prevede una transizione in cui ci sia ancora Assad per arrivare alla transizione prevista dalla Risoluzione 2254 dalla quale il presidente dovrebbe essere invece completamente escluso.

In realtà, è ormai chiaro che Assad e il regime faranno parte della transizione con il consenso dell’amministrazione Usa. Ma, ancora una volta, ciò potrebbe non andare oltre le elezioni di novembre. Perciò, non solo siamo di fronte a un accordo politicamente dubbio, ma anche molto fragile. Potrebbe essere questo il motivo per cui Lavrov l’ha siglato.

Roberto Aliboni è consigliere scientifico dello IAI.
 

mercoledì 14 settembre 2016

Turchia: politica estera turca in evoluzione

Siria
Erdogan e l’incubo Rojava
Bianca Benvenuti
07/09/2016
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La Turchia, primo Paese, il 24 agosto, ad intervenire via terra nella polveriera siriana, sin dall’inizio della guerra civile si era dimostrata riluttante a prendere parte al conflitto per ragioni al contempo politiche e militari: intervenire nella guerra siriana, da tempo confermatasi una guerra per procura, avrebbe rischiato di peggiorare le relazioni regionali turche, in particolare con Russia, Iran e Iraq.

L’esplosione di un kamikaze il 20 agosto a Gaziantep ha fornito il casus belli per questo cambio di rotta: il presidente Recep Tayyip Erdoğan ha definito indispensabile l’ingresso in Siria per combattere il terrorismo. La Turchia ha subito 15 attacchi terroristici negli ultimi 14 mesi, di cui sei imputati, seppur mai rivendicati, all’autoproclamatosi “stato islamico”. Ma ci sono altre ragioni che spiegano la decisione turca.

L’unione dei cantoni curdi che fa paura
Il 14 agosto, dopo due mesi di scontri, le forze curde del Ypg hanno liberato la città di Manbij dall’assedio dei jihadisti, varcando la linea rossa dell’Eufrate e alimentando le preoccupazioni di Ankara verso l’espansione della zona di controllo curda. I tre cantoni curdi nel nord della Siria, autoproclamatisi regione federale nel marzo di quest’anno, sono separati da un corridoio controllato dallo “stato islamico”di circa 110 chilometri che si estende dall’Eufrate fino al cantone di Afrin.

Le speranze di una continuità territoriale per le zone sotto controllo curdo si sono accese con la liberazione di Manbij, primo passo delle forze del Ypg ad ovest dell’Eufrate. Per la Turchia, l’unione dei tre cantoni del Rojava, così come viene chiamata la zona a maggioranza curda in Siria, è un incubo da scongiurare, perché determinerebbe l’avvicinarsi della prospettiva di una Siria federale al termine della guerra civile e la conseguente nascita di una regione autonoma curda con la quale la Turchia condividerebbe buona parte dei suoi confini nel sud est.

Oltre lo “stato islamico”
Considerando la ormai consolidata presenza del governo regionale del Kurdistan in Iraq, ad un passo dal divenire uno stato autonomo, Ankara teme che una soluzione simile in Siria alimenterebbe le spinte irredentiste della minoranza curda in Turchia, oltre che a rafforzare militarmente il Partito dei Lavoratori del Kurdistan(Pkk).

Il governo non fa segreto di questo obiettivo durante l’avanzata verso Jarablus: il ministro della Difesa turco Fikri Isik, a poche ore dell’inizio dell’operazione, ha dichiarato che è una priorità del governo turco ripulire la zona dai jiihadisti, ma è al contempo indispensabile assicurarsi che la stessa non sia occupata dalle forze del Ypg/Pyd.

Di fatti, la richiesta del governo turco di assicurarsi il controllo di quella striscia di terra che va da Afrin a Jarabulus non è nuova: già nel luglio 2015, Erdoğan aveva promosso l’idea di definire una no-flying zoneper creare una zona cuscinetto proprio nel corridoio dove in questi giorni combattono i carrarmati turchi. Questa sarebbe servita anche per assicurare una zona sicura per i profughi siriani ed evitarne così l’esodo in Turchia.

Politica estera turca in evoluzione
L’ingresso in Siria rischia di gettare la Turchia in un’instabilità peggiore di quella attuale. Sul fronte interno sta già producendo una ri-radicalizzazione del conflitto con la minoranza curda e i guerriglieri del Pkk, a poco più di un anno dalla fine del naufragato processo di pace.

Molti osservatori, inoltre, si interrogano sulla capacità dell’esercito di mantenere questo fronte, considerate le epurazioni nei ranghi militari avvenute a seguito del tentato golpe del 15 luglio. Al contempo, la Turchia rischia di complicare le sue relazioni regionali e internazionali, a soli due mesi dalla nuova direzione in politica estera volta ad uscire dal crescente isolazionismo regionale che aveva permesso la riapertura delle relazioni con Israele e Russia e aveva fatto ben sperare in un riavvicinamento anche all’Egitto e alla Siria.

L’intervento della Turchia in Siria apre numerosi scenari e interrogativi sul futuro della guerra, ma anche della situazione domestica turca. Al tempo stesso, però, questa scelta rivela molto delle priorità di Ankara. L’eventualità di una enclave curda nel suo sud est è percepito dallo stato turco come il più temuto pericolo per la sicurezza nazionale.

Nessun governo vorrebbe mai essere accusato di aver permesso ai curdi di creare un nuovo stato, a maggior ragione l’Akp di Erdoğan che ha da mesi adottato una retorica nazionalista per legittimare il suo crescente autoritarismo. Il pragmatismo politico finisce lì dove comincia la questione curda e questa sembra essere una regola d’oro dei governi turchi.

Bianca Benvenuti è visiting researcher allo IAI.