martedì 29 settembre 2015

Turchia: elezioni il 1 novembre 2015

Di nuovo alle urne
La Turchia e il vicinato verso le elezioni
Laura Mirachian
24/09/2015
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È tempo di pensare alla Turchia. Paese-cerniera tra Occidente ed Oriente, tra Europa ed Asia, tra Mar Nero e Mediterraneo, idealmente posizionato per esercitare un importante ruolo geopolitico e interprete fino a tempi recenti di un Islam dialogante portato ad esempio per il travagliato mondo arabo, la Turchia di Erdogan andrà a nuove elezioni il 1̊ novembre, dopo appena tre mesi dalle consultazioni di agosto, in un contesto molto problematico.

Il progetto, fallito in prima istanza, è riuscire a comporre la maggioranza di 2/3 necessaria ad emendare la Costituzione in senso presidenziale. Ma, è davvero realistico?

Le sfide e i risultati di Erdogan
Erdogan sta affrontando tre sfide: la gestione dei curdi del sud-est e di quelli oltre confine in Siria e Iraq; una stabilizzazione del Medio Oriente che non vanifichi le ambizioni di influenza su cui ha tanto investito nell’ultimo decennio; un sufficiente contrasto al sedicente Stato islamco (Is), che l’attentato kamikaze a Suruc dimostra essere giunto alle sue porte.

I tre capitoli sono vistosamente interconnessi. In aggiunta, il progressivo deterioramento degli standard democratici, culminato nella repressione della ribellione giovanile a Gezi Park e nel duro contrasto con l’antagonista Gulen e con lo “Stato profondo” che egli è accusato di fomentare, conferma l’impressione che il Paese fatichi a reperire un equilibrio.

Eppure, vanno riconosciuti i meriti della prima gestione di Erdogan. In dieci anni, ha portato il Paese a uno straordinario successo economico tanto da farne la 14a economia mondiale, con un Pil prossimo alla media europea (stime Eurostat 2012).

Ha perseguito un appeasement con il Pkk mediante un abile utilizzo del detenuto a vita Ocalan; e, all’insegna di “zero problems with neighbourood”, ha rilanciato le relazioni con il vicinato arabo sulla scorta del passato ottomano e delle sintonie confessionali conseguendo una notevole espansione di commerci e influenza politica.

Ha anche mantenuto, nelle statuizioni, l’obiettivo dell’adesione alla Ue, di nuovo citata nella piattaforma che gli ha fruttato l’elezione alla presidenza nell’agosto 2014.

La crisi in Siria e l’irrompere dell’Is
Poi qualcosa è andato per il verso sbagliato. Allo scoccare dei sovvertimenti arabi nel vicino quadrante mediorientale, e in particolare in Siria. È in quel momento che Erdogan, dopo aver esercitato invano pressioni politiche su Assad per l’apertura del sistema ai sunniti, si è trovato davanti il dilemma se, e in che misura, sostenere le istanze di ribellione.

Ha deciso che Assad è il primo obiettivo da abbattere. E ha optato per il fiancheggiamento degli oppositori senza troppe distinzioni, fornendo sostegno logistico e organizzativo, santuari anche ai gruppi più radicali, facilitazioni di transito ai ‘foreign fighters’ e - non ultimo - offrendo un’accoglienza umanitaria fin troppo generosa al massiccio flusso di rifugiati, forse nella prospettiva di capitalizzare sulla loro riconoscenza.

Scelte che hanno finito per coinvolgere pesantemente il Paese nella guerra civile siriana e per riaprire il contrasto con i curdi entro e fuori confine. Questa politica non è apparentemente cambiata con l’irruzione sulla scena dell’Is nell’estate 2014 e la sua rapida espansione in Siria, Iraq ed oltre.

Ne ha risentito inevitabilmente il rapporto con la componente curda. Sul duplice fronte dell’ascesa del Partito curdo Hdp per la prima volta in Parlamento con ben 80 seggi, sull’onda dei successi conseguiti dai curdi oltre confine nel contrasto all’Is (l’eroica resistenza di Kobane), con il sostegno della coalizione a guida Stati Uniti, e della ripresa del terrorismo Pkk dopo l’attacco kamikaze al Centro culturale curdo di Suruc, attribuito all’Is ma sospettato di matrice turca da parte dei curdi.

E ne hanno risentito anche le libertà democratiche, sacrificate in nome del controllo interno nel contesto delle gravi turbolenze dei dintorni.

Né l’accordo di agosto con gli Stati Uniti per la concessione dell’uso della base aerea di Incirlik e la partecipazione turca alla coalizione anti-terrorismo ha contribuito, nell’ambiguità dei testi e altresì della successiva pronuncia della Nato, a un chiaro allineamento di Ankara alle priorità occidentali.

Nel frattempo, si scaricano sull’Europa masse di rifugiati siriani provenienti o in transito dalla Turchia, che evidentemente vi scorge ora più un fattore di disturbo e un rischio di infiltrazioni terroristiche che un vantaggio in termini di influenza nel futuro della Nuova Siria.

Un più stretto raccordo con l’Europa
A questo punto, dobbiamo interrogarci sull’approccio che l’Europa ha praticato nei confronti del Paese, se essa abbia esperito tutti i modi per tenerlo agganciato, in queste straordinarie circostanze, e soprattutto se sia possibile aggiornarlo alla luce degli sviluppi intervenuti.

Come sappiamo, le relazioni di associazione risalgono al lontano 1963, l’unione doganale al 1995, lo status di Paese candidato al 1999, l’avvio dei negoziati di adesione al 2005.

Da allora, le trattative sono andate molto a rilento. Per una serie di con-cause, tra cui le sopravvenute perplessità di taluni europei al tragitto di adesione di un paese vasto e non culturalmente omologabile (la proposta tedesca di sostituirlo con una “special partnership”) e, da ultimo, la stagnazione economica e i problemi dell’euro-zona che hanno mutato l’ordine delle priorità.

Ma, per oltre un decennio, l’obiettivo dell’adesione ha rappresentato per la Turchia un catalizzatore per le riforme economiche e gli standard politici (ivi inclusa l’abolizione della pena di morte nel 2004), oltre che un volano per il successo economico.

Oggi, il consenso nell’opinione pubblica turca, ancorché in forte calo, è pur sempre del 42%. Non sarebbe impossibile ricostruire con il Paese un rapporto di fiducia. E sostenerlo in un percorso di allineamento con le posizioni europee in Medio Oriente, che ponga fine alle deviazioni islamiste e che al contempo ne prefiguri il posizionamento di co-protagonista nella regione che gli spetta.

Non basta recarsi ad Ankara per chiederle di frenare il flusso dei profughi ed elargire qualche finanziamento supplementare perché continui ad ospitarli.

Il 5 ottobre Erdogan sarà a colloquio con Juncker a Bruxelles. Erdogan non è il tipo che chiede favori né che lascia trapelare vulnerabilità.

Ma per l’Europa è un’occasione per riassicurare la Turchia sul suo ruolo nella regione, ottenendone in cambio comportamenti conformi, e per riprendere le fila, se non del negoziato in senso stretto, di quell’approccio “integrato”, fatto di dialogo politico, culturale, economico, che a suo tempo, a partire dalla stabilizzazione dei Balcani, ha fruttato un proficuo coordinamento con la comunità occidentale, oltre che un graduale adeguamento agli standard internazionali sul piano dei diritti civili.

Laura Mirachian, Ambasciatore, già Rappresentante Permanente presso l’Onu, Ginevra.
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