Medio Oriente L'Ue e lo ‘Stato di Palestina’ Lorenzo Kamel 10/12/2014 |
"Il riconoscimento unilaterale di uno Stato palestinese non ci permetterà di fare passi in avanti", ha chiarito lo scorso 19 novembre Angela Merkel.
Le parole del cancelliere tedesco fanno eco a una opinione diffusa, secondo la quale riconoscendo lo “Stato di Palestina” - ammesso all’Onu nel novembre 2012 grazie al voto favorevole di 138 membri dell’Assemblea generale - si rischia di rafforzare “l’unilateralismo palestinese”.
Stigmatizzare come “unilaterale” il tentativo di interpellare un’organizzazione mondiale, al fine di far prevalere il consenso internazionale, può apparire come un ossimoro. A maggior ragione se si considera che il 14 maggio 1948 David Ben-Gurion proclamò unilateralmente la fondazione dello Stato d’Israele, forte di una risoluzione appoggiata da 33 dei 56 paesi che componevano l’allora Assemblea generale.
I vincoli di Oslo
Da più parti è stato fatto presente che la scelta di appellarsi a organismi internazionali rappresenta una violazione degli Accordi di Oslo (1993): Israele e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) non chiarirono in maniera definitiva la questione della sovranità dei territori palestinesi.
Gli Accordi di Oslo prevedevano un periodo di interim di cinque anni (Art. 1), che fu caratterizzato dalla costruzione di un numero esponenziale di insediamenti, dal terrorismo palestinese e dalle operazioni militari israeliane.
Sebbene sia corretto sostenere che gli Accordi stipularono che “nessuna delle due parti deve iniziare o adottare qualsiasi disposizione volta a cambiare lo status della Cisgiordania e della Striscia di Gaza” (Art. 31), è altresì necessario notare che ad ogni tornata di negoziati le autorità israeliane esigono che le parti in causa tengano conto della mutata realtà demografica.
Gli ingenti incentivi accordati dal governo Netanyahu agli insediamenti non possono essere considerati come un’involontaria conseguenza delle politiche adottate nella regione. Essi mirano a condizionare lo status presente e futuro dell’area.
Il significato dell’internazionalizzazione del conflitto
Una risoluzione del Consiglio di Sicurezza, volta a porre dei limiti temporali all’attuale status quo, avrebbe effetti limitati. Verrebbe approvata sulla base del capitolo VI della Carta dell’Onu: solo le risoluzioni sotto l’ombrello del capitolo VII della Carta forniscono al Consiglio di Sicurezza l’autorità di comminare sanzioni e contemplano l’eventuale uso della forza.
Anche il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte dell’Unione europea (Ue) e/o degli stati membri - l’Italia, a differenza di altri paesi dell’Ue, non ha effettuato un atto formale di riconoscimento, ma si è espressa in favore della risoluzione votata dall’Assemblea generale Onu nel novembre 2012 - non porterebbe cambiamenti immediati.
L’occupazione della Cisgiordania garantisce allo Stato di Israele dei benefici in termini di sicurezza. Ciò che accade al di là della “Linea Verde” va tuttavia al di là di questo aspetto.
Ad esempio, circa il 93 percento della pietra e delle risorse minerarie estratte (da ditte israeliane) nei territori palestinesi viene trasportato e utilizzato in Israele: immaginare che azioni poco più che simboliche possano scalfire una simile situazione sarebbe utopico.
Eppure non si può negare che questo sia un conflitto che si è da sempre alimentato anche e soprattutto di simboli. Un nuovo intervento del Consiglio di Sicurezza e/o il riconoscimento dello Stato palestinese da parte dell’Ue invierebbero un preciso segnale volto a denunciare l’attuale “anomalia storica”.
A differenza dei curdi, dei baschi, dei tibetani e di altri popoli soggetti all’autorità di paesi esterni, i palestinesi sono sprovvisti tanto di uno stato quanto di una cittadinanza. Le “potenze occupanti” presenti nei contesti citati mantengono sì i benefici connessi alle loro “occupazioni”, ma si sono assunte delle responsabilità nei riguardi delle popolazioni assoggettate.
L’approccio dell’Ue visto dai territori palestinesi
Una percentuale consistente dell’opinione pubblica palestinese ritiene che le manovre in atto a Bruxelles possano distogliere l’attenzione da quella che considerano la loro priorità: una battaglia per i diritti umani e civili.
È opportuno dunque chiedersi per quale ragione molti palestinesi valutino comunque positivamente l’impegno dell’Ue in favore dell’autoderminazione di entrambi i popoli.
La dicotomia “uno o due stati” viene percepita come un’illusione. È opinione diffusa tra i palestinesi che in assenza di pressioni più concrete le autorità israeliane si annetteranno l’Area C della Cisgiordania (il 60 percento del totale), offrendo ai palestinesi ciò che il ministro dell’Economia Naftali Bennett ha definito una “autonomy on steroids”.
Tale scenario non richiede alcuna guerra, né la rimozione della maggioranza della popolazione: i palestinesi che negli anni a venire saranno ancora presenti nell’Area C avranno, come accade a Gerusalemme Est, la facoltà di ricevere la cittadinanza israeliana.
In questa fase, disperdere energie immaginando un’inverosimile “battaglia per i diritti tra il Mediterraneo e il fiume Giordano” favorisce l’iter di annessione dell’Area C.
Le priorità di Bruxelles
La tesi secondo cui un qualsiasi passo in avanti debba necessariamente verificarsi a seguito di un accordo bilaterale ignora l’enorme disparità (economica, politica, militare) esistente tra le due parti e il ruolo rivestito dalla comunità internazionale sin dagli albori del conflitto.
Ciò non toglie che l’eventuale riconoscimento dello “Stato non-membro di Palestina” richiederà una strategia di ampio respiro da parte dell’Ue, affinché tale passo non rimanga fine a se stesso.
Due le priorità. Bruxelles, maggiore finanziatore dell’Anp, è tenuta ad esercitare pressioni concrete affinché venga ricostituito un sistema politico funzionale che permetta ad attori diversi da Fatah e Hamas - due entità non-rappresentative - di poter competere sulla scena politica palestinese.
Deve inoltre implementare iniziative più efficaci - come avvenuto in Ucraina - finalizzate a sanzionare qualsiasi politica volta a minare il principio di autodeterminazione di entrambi i popoli: un principio che oggi più che mai rappresenta un punto di partenza (due stati), non la meta finale (una federazione regionale).
Lorenzo Kamel è postdoctoral fellow 2014/15 al Center for Middle Eastern Studies dell'Università di Harvard. Il suo ultimo libro, 'Imperial Perceptions of Palestine', è in stampa con I.B. Tauris..
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Stigmatizzare come “unilaterale” il tentativo di interpellare un’organizzazione mondiale, al fine di far prevalere il consenso internazionale, può apparire come un ossimoro. A maggior ragione se si considera che il 14 maggio 1948 David Ben-Gurion proclamò unilateralmente la fondazione dello Stato d’Israele, forte di una risoluzione appoggiata da 33 dei 56 paesi che componevano l’allora Assemblea generale.
I vincoli di Oslo
Da più parti è stato fatto presente che la scelta di appellarsi a organismi internazionali rappresenta una violazione degli Accordi di Oslo (1993): Israele e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) non chiarirono in maniera definitiva la questione della sovranità dei territori palestinesi.
Gli Accordi di Oslo prevedevano un periodo di interim di cinque anni (Art. 1), che fu caratterizzato dalla costruzione di un numero esponenziale di insediamenti, dal terrorismo palestinese e dalle operazioni militari israeliane.
Sebbene sia corretto sostenere che gli Accordi stipularono che “nessuna delle due parti deve iniziare o adottare qualsiasi disposizione volta a cambiare lo status della Cisgiordania e della Striscia di Gaza” (Art. 31), è altresì necessario notare che ad ogni tornata di negoziati le autorità israeliane esigono che le parti in causa tengano conto della mutata realtà demografica.
Gli ingenti incentivi accordati dal governo Netanyahu agli insediamenti non possono essere considerati come un’involontaria conseguenza delle politiche adottate nella regione. Essi mirano a condizionare lo status presente e futuro dell’area.
Il significato dell’internazionalizzazione del conflitto
Una risoluzione del Consiglio di Sicurezza, volta a porre dei limiti temporali all’attuale status quo, avrebbe effetti limitati. Verrebbe approvata sulla base del capitolo VI della Carta dell’Onu: solo le risoluzioni sotto l’ombrello del capitolo VII della Carta forniscono al Consiglio di Sicurezza l’autorità di comminare sanzioni e contemplano l’eventuale uso della forza.
Anche il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte dell’Unione europea (Ue) e/o degli stati membri - l’Italia, a differenza di altri paesi dell’Ue, non ha effettuato un atto formale di riconoscimento, ma si è espressa in favore della risoluzione votata dall’Assemblea generale Onu nel novembre 2012 - non porterebbe cambiamenti immediati.
L’occupazione della Cisgiordania garantisce allo Stato di Israele dei benefici in termini di sicurezza. Ciò che accade al di là della “Linea Verde” va tuttavia al di là di questo aspetto.
Ad esempio, circa il 93 percento della pietra e delle risorse minerarie estratte (da ditte israeliane) nei territori palestinesi viene trasportato e utilizzato in Israele: immaginare che azioni poco più che simboliche possano scalfire una simile situazione sarebbe utopico.
Eppure non si può negare che questo sia un conflitto che si è da sempre alimentato anche e soprattutto di simboli. Un nuovo intervento del Consiglio di Sicurezza e/o il riconoscimento dello Stato palestinese da parte dell’Ue invierebbero un preciso segnale volto a denunciare l’attuale “anomalia storica”.
A differenza dei curdi, dei baschi, dei tibetani e di altri popoli soggetti all’autorità di paesi esterni, i palestinesi sono sprovvisti tanto di uno stato quanto di una cittadinanza. Le “potenze occupanti” presenti nei contesti citati mantengono sì i benefici connessi alle loro “occupazioni”, ma si sono assunte delle responsabilità nei riguardi delle popolazioni assoggettate.
L’approccio dell’Ue visto dai territori palestinesi
Una percentuale consistente dell’opinione pubblica palestinese ritiene che le manovre in atto a Bruxelles possano distogliere l’attenzione da quella che considerano la loro priorità: una battaglia per i diritti umani e civili.
È opportuno dunque chiedersi per quale ragione molti palestinesi valutino comunque positivamente l’impegno dell’Ue in favore dell’autoderminazione di entrambi i popoli.
La dicotomia “uno o due stati” viene percepita come un’illusione. È opinione diffusa tra i palestinesi che in assenza di pressioni più concrete le autorità israeliane si annetteranno l’Area C della Cisgiordania (il 60 percento del totale), offrendo ai palestinesi ciò che il ministro dell’Economia Naftali Bennett ha definito una “autonomy on steroids”.
Tale scenario non richiede alcuna guerra, né la rimozione della maggioranza della popolazione: i palestinesi che negli anni a venire saranno ancora presenti nell’Area C avranno, come accade a Gerusalemme Est, la facoltà di ricevere la cittadinanza israeliana.
In questa fase, disperdere energie immaginando un’inverosimile “battaglia per i diritti tra il Mediterraneo e il fiume Giordano” favorisce l’iter di annessione dell’Area C.
Le priorità di Bruxelles
La tesi secondo cui un qualsiasi passo in avanti debba necessariamente verificarsi a seguito di un accordo bilaterale ignora l’enorme disparità (economica, politica, militare) esistente tra le due parti e il ruolo rivestito dalla comunità internazionale sin dagli albori del conflitto.
Ciò non toglie che l’eventuale riconoscimento dello “Stato non-membro di Palestina” richiederà una strategia di ampio respiro da parte dell’Ue, affinché tale passo non rimanga fine a se stesso.
Due le priorità. Bruxelles, maggiore finanziatore dell’Anp, è tenuta ad esercitare pressioni concrete affinché venga ricostituito un sistema politico funzionale che permetta ad attori diversi da Fatah e Hamas - due entità non-rappresentative - di poter competere sulla scena politica palestinese.
Deve inoltre implementare iniziative più efficaci - come avvenuto in Ucraina - finalizzate a sanzionare qualsiasi politica volta a minare il principio di autodeterminazione di entrambi i popoli: un principio che oggi più che mai rappresenta un punto di partenza (due stati), non la meta finale (una federazione regionale).
Lorenzo Kamel è postdoctoral fellow 2014/15 al Center for Middle Eastern Studies dell'Università di Harvard. Il suo ultimo libro, 'Imperial Perceptions of Palestine', è in stampa con I.B. Tauris..
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