mercoledì 28 gennaio 2015

Arabia Saudita: con il Califfato è andata troppo oltre

Califfato
I Saud spaventati dal mostro che hanno creato
Lorenzo Kamel
23/01/2015
 più piccolopiù grande
Secondo quanto scritto su Asharq al-Awsat da Turki al-Faysal, presidente del King Faisal Centre for Research and Islamic Studies di Riad, i componenti dello pseudo “Stato Islamico” sono “i nuovi kharigiti del mondo islamico”.

I membri di Daesh – acronimo arabo dello “Stato islamico dell'Iraq e del Levante” – incarnerebbero dunque una nuova versione del gruppo che nel settimo secolo “prese le distanze dall’Islam”, divenendo noto per la sua crudeltà e le sue azioni barbare.

Le parole di al-Faysal hanno fatto eco a quelle pronunciate negli ultimi mesi da decine di personalità saudite, incluso il Gran Muftì Abdul Aziz Al ash-Sheikh, il quale ha chiarito che Daesh “è un’estensione del Kharigismo […] non li consideriamo musulmani”.

Kharigismo
Non stupisce che la tendenza di associare Daesh al kharigismo (al-khawarig, “gli uscenti”) sia sempre più diffusa nei media finanziati dall’establishment saudita (e non solo su essi).

La rilevanza di questo aspetto va infatti al di là di una semplice diatriba interreligiosa. Il tentativo di tracciare un solco netto tra il rigorismo dottrinale wahhabita - che scandisce la vita religiosa e politica del paese - e la altrettando rigida ideologia alla quale si richiamano i seguaci di Daesh è finalizzato ad anestetizzare le tensioni interne al regno saudita.

Ribadire questa differenza serve anche ad arginare le ambiguità che continuano a caratterizzare i sentimenti di una percentuale rilevante dell’opinione pubblica locale in rapporto al gruppo jihadista guidato da Abu Bakr al-Baghdadi.

Il tentativo di svincolare Daesh dall’eredità wahhabita - in favore di un improbabile legame con il kharigismo - appare problematico e mosso in larga parte da calcoli strategico-politici.

Il “califfato” continua a distribuire copie dei testi del fondatore del Wahhabismo Ibn ʿAbd al-Wahhab nelle aree dell’Iraq e della Siria sotto il suo controllo e si rifà a molte delle sue tesi più influenti, incluso l’obbligo per tutti i fedeli di giurare fedeltà a un singolo leader musulmano, preferibilmente un califfo.

Inoltre, i seguaci del kharigismo, a dispetto del loro approccio oltranzista e in particolare del loro ampio ricorso al takfir (la pena, a volte capitale, riservata ai musulmani “empi”), non furono storicamente spinti da un’aperta ostilità nei riguardi dei fedeli non-musulmani, o delle minoranze locali.

Per comprendere gli sforzi di Riad che fino a un recente passato ha sostenuto e finanziato gruppi poi confluiti nello “stato islamico” è necessario andare oltre le tesi emerse in questi ultimi mesi, concentrando l’attenzione sulle radici storiche dell’ambiguità saudita riguardo l’ascesa di Daesh e su come tale ambiguità sia stata funzionale alla crescita esponenziale del movimento jihadista.

Non solo purinatesimo oltranzista wahhabita
L’identità saudita moderna è legata a due componenti di base. La prima è ricollegabile a Ibn ʿAbd al-Wahhab e alle dinamiche attraverso le quali il puritanesimo oltranzista di cui si fece portatore, ispirato dagli insegnamenti di Ibn Taymiyyah, venne adottato da Muhammad ibn Saud nella metà del Settecento.

Le seconda è riconducibile a re Abd-al Aziz, il quale negli anni Venti del Novecento istituzionalizzò l’originario impulso wahhabita attraverso la fondazione dello stato.

Come argomentato da Alastair Crooke, l’ascesa di Daesh e la sfida che esso ha lanciato alla legittimità del re viene percepita da una percentuale rilevante dei sauditi, compresi alcuni influenti sceicchi locali, alla stregua di un ritorno alle origini del progetto saudita-wahhabita.

È dunque questa “minaccia interna”, potenzialmente in grado di scardinare le fondamenta stesse della monarchia, ad aver spinto l’establishment saudita a investire crescenti energie per minare le basi ideologiche nelle quali affonda Daesh.

Minacce alla stabilità del regno saudita
Negli ultimi quattro anni Riad ha investito un’enorme quantità di risorse per opporsi all’ascesa di qualsiasi governo/partito che, nel mondo arabo, avrebbe potuto rappresentare un’alternativa credibile al “modello saudita”. Questo spiega anche la decisione di appoggiare l’esercito egiziano nel golpe contro l’ex presidente islamista Mohamed Mursi.

Anche le politiche adottate nella regione da Washington sono state percepite con forte apprensione dalla famiglia saudita. Il rovesciamento del regime di Saddam Hussein e il non-intervento in Siria, in particolare, sono ancora oggi considerati come degli indiretti assist alle strategie iraniane.

La vera minaccia alla stabilità del regno è tuttavia “interna”: proviene da un movimento (Daesh) che per molti versi rappresenta un’emanazione diretta del retaggio storico saudita. Come ha notato Madawi al-Rasheed, “il regno e il califfato sono così simili da provare un senso di repulsione l’uno nei riguardi dell’altro”.

È ancora presto per sapere se la monarchia riuscirà a trovare l’antidoto a quella che sembra essere la scintilla di un corto circuito. Ciò che appare evidente è che il quadro regionale è molto cambiato rispetto al recente passato e che la risposta scelta dall’establishment saudita, volta a reprimere ulteriormente i sia pur timidi movimenti di opposizione interna, creerà una crescente instabilità nel paese e aprirà nuovi varchi all’estremismo jihadista.

Lorenzo Kamel è postdoctoral fellow al Center for Middle Eastern Studies di Harvard e consulente di ricerca dello IAI.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=2943#sthash.1Ha5TiSb.dpuf

Nessun commento:

Posta un commento