Leva in Israele Se l'esercito del popolo israeliano finisse Claudia De Martino 22/01/2015 |
Leva facoltativa sì o no? Il dibattito sulla possibile abolizione dell’obbligo di leva in Israele è stato lanciato da uno studio commissionato dall’esercito di difesa ebraica (Idf) al sociologo Yuval Benziman.
La discussione è ancora aperta e allo stadio teorico è un confronto tra diverse prospettive di evoluzione per lo stato ebraico che non si tradurrà a breve in una proposta di legge.
Tuttavia il fatto che emerga come una delle possibilità di riforma è già importante perché prevede l’orientamento che le forze armate intendono seguire nella loro sostanziale riorganizzazione.
Futuro dell’esercito israeliano
Per l’Idf si pone il problema di un riassetto integrale delle sue forze, pensate e strutturate per rispondere a scontri frontali con grandi eserciti di terra, possibilità meno probabili nel XXII secolo.
Già nel luglio 2013, il Ministro della difesa Ya’alon annunciò che i carri armati Patton e molte divisioni di fanteria, più alcune unità navali e aeree, avrebbero dovuto essere eliminati per far posto a un esercito più piccolo e maggiormente incentrato sulle componenti di intelligence.
Tutto questo anche in vista degli obiettivi di riduzione del budget delle forze armate imposti dall’ultimo governo Nethanyau.
Tale ridimensionamento - a parere del ministro - non avrebbe pregiudicato l’efficacia e la superiorità tecnologica - una sorta di dogma per la difesa israeliana - dell’Idf rispetto ai paesi arabi e all’Iran. Avrebbe anzi risposto a un’esigenza di riforma sempre più avvertita dall’esercito, perché “gli scenari di guerra sono completamente diversi da quelli conosciuti in passato”.
L’obiettivo del governo non era solo quello di imporre una spending review alle forze armate - un vero buco nero dell’economia israeliana, pari a 70,5 miliardi di dollari e al 5,7% del Pil - o di assecondare i cambiamenti in atto nello scenario.
Vi era intenzione di investire maggiormente su forme di intervento contemporaneamente ad alto potenziale di successo e a basso rischio, come l’aeronautica militare e l’intelligence, cibernetica e non.
Shministin, refuznikim e riservisti israeliani
Su questo punto si innesta la discussione sulla possibile eliminazione, in un non ben precisato orizzonte futuro, dell’obbligo di leva universale, che andrebbe a rispondere a una richiesta avanzata con sempre più insistenza all’esercito dalla società civile: quella di limitare al massimo e con ogni mezzo le perdite umane.
Perdite che, come ovvio, sono quasi automaticamente associate alle operazioni di terra. A ciò si lega la questione sollevata dai riservisti sulla revisione dell’obbligo attualmente in vigore per tutti i soldati smobilitati dalla leva di compiere 39 giorni di servizio all’anno fino al compimento del quarantesimo anno d’età.
Al problema posto dai riservisti si aggiungono altre questioni sollevate da vari segmenti della società, scontenti dello stato attuale. I soldati di leva lamentano il fatto che 48 mesi di ferma come ufficiali e 36 come soldati semplici siano troppi e privino intere generazioni di un prezioso periodo di studio, formazione o lavoro.
Gli ultraortodossi deplorano che l’obbligo di leva loro imposto in nome dell’uguaglianza tra tutti i cittadini, privi la comunità di una parte di giovani che sarebbero ottimi studenti di Torah e sono costretti, invece, a diventare pessimi e poco motivati soldati.
Una parte di studenti dell’ultimo anno di superiori, riuniti nel gruppo Shministin (di dodicesimo grado o anno scolastico) rifiutano completamente il servizio di leva in nome della non-violenza, alleandosi con i refuznikim.
Tutti insieme denunciano la magrezza dei salari che vengono corrisposti dall’esercito e il fatto che non siano affatto in linea con il costo della vita. Lo stipendio medio mensile di un soldato arruolato in unità combattente resta attestato sui 282 dollari.
Società israeliana in evoluzione
Il dibattito che si è aperto nell’Idf risponde a un bisogno profondo di cambiamento della società.
Fino ad oggi, infatti, nel bene o nel male, nelle guerre “pulite” e in quelle più “sporche”, si è sempre ribadito all’unisono da parte della società civile e delle alte sfere militari che l’Idf resta l’esercito “del popolo”, l’”esercito di tutti”: l’unica istituzione in grado di garantire il melting pot della società israeliana, contraddistinta da flussi migratori massicci e profondamente variegata al suo interno.
Oggi, invece, proponendo di mettere fine a quella esperienza, si sostiene che la leva universale è un’utopia, dato che solo il 53,5% degli uomini e il 37% delle donne servono nell’esercito. Che i figli dei ricchi aschenaziti, che un tempo rappresentavano il cuore delle unità d’élite come la famosa Brigata Golani, oggi disertano le unità combattenti per quelle di intelligence e ad alta tecnologia, pensando alle proprie opportunità professionali future più che al servizio allo stato.
Forse avrebbe più senso lasciare a ognuno la scelta individuale su sé, e in quale misura, contribuire alla vita pubblica. Soprattutto se, come affermano in molti anche tra le fila dell’esercito, la leva universale non corrisponde più a un bisogno di sicurezza.
Centomila mila uomini permanentemente in armi sarebbero una cifra sproporzionata rispetto alle esigenze di difesa dello stato e l’Idf non saprebbe cosa farsene di circa il 30% dei jobnik o “collari blu”, ovvero dei soldati di leva che siedono dietro le scrivanie di un ufficio.
Un dibattito aperto, quindi, destinato ad assumere sempre maggiore centralità nei prossimi anni.
Claudia De Martino è ricercatrice presso UNIMED, Roma.
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La discussione è ancora aperta e allo stadio teorico è un confronto tra diverse prospettive di evoluzione per lo stato ebraico che non si tradurrà a breve in una proposta di legge.
Tuttavia il fatto che emerga come una delle possibilità di riforma è già importante perché prevede l’orientamento che le forze armate intendono seguire nella loro sostanziale riorganizzazione.
Futuro dell’esercito israeliano
Per l’Idf si pone il problema di un riassetto integrale delle sue forze, pensate e strutturate per rispondere a scontri frontali con grandi eserciti di terra, possibilità meno probabili nel XXII secolo.
Già nel luglio 2013, il Ministro della difesa Ya’alon annunciò che i carri armati Patton e molte divisioni di fanteria, più alcune unità navali e aeree, avrebbero dovuto essere eliminati per far posto a un esercito più piccolo e maggiormente incentrato sulle componenti di intelligence.
Tutto questo anche in vista degli obiettivi di riduzione del budget delle forze armate imposti dall’ultimo governo Nethanyau.
Tale ridimensionamento - a parere del ministro - non avrebbe pregiudicato l’efficacia e la superiorità tecnologica - una sorta di dogma per la difesa israeliana - dell’Idf rispetto ai paesi arabi e all’Iran. Avrebbe anzi risposto a un’esigenza di riforma sempre più avvertita dall’esercito, perché “gli scenari di guerra sono completamente diversi da quelli conosciuti in passato”.
L’obiettivo del governo non era solo quello di imporre una spending review alle forze armate - un vero buco nero dell’economia israeliana, pari a 70,5 miliardi di dollari e al 5,7% del Pil - o di assecondare i cambiamenti in atto nello scenario.
Vi era intenzione di investire maggiormente su forme di intervento contemporaneamente ad alto potenziale di successo e a basso rischio, come l’aeronautica militare e l’intelligence, cibernetica e non.
Shministin, refuznikim e riservisti israeliani
Su questo punto si innesta la discussione sulla possibile eliminazione, in un non ben precisato orizzonte futuro, dell’obbligo di leva universale, che andrebbe a rispondere a una richiesta avanzata con sempre più insistenza all’esercito dalla società civile: quella di limitare al massimo e con ogni mezzo le perdite umane.
Perdite che, come ovvio, sono quasi automaticamente associate alle operazioni di terra. A ciò si lega la questione sollevata dai riservisti sulla revisione dell’obbligo attualmente in vigore per tutti i soldati smobilitati dalla leva di compiere 39 giorni di servizio all’anno fino al compimento del quarantesimo anno d’età.
Al problema posto dai riservisti si aggiungono altre questioni sollevate da vari segmenti della società, scontenti dello stato attuale. I soldati di leva lamentano il fatto che 48 mesi di ferma come ufficiali e 36 come soldati semplici siano troppi e privino intere generazioni di un prezioso periodo di studio, formazione o lavoro.
Gli ultraortodossi deplorano che l’obbligo di leva loro imposto in nome dell’uguaglianza tra tutti i cittadini, privi la comunità di una parte di giovani che sarebbero ottimi studenti di Torah e sono costretti, invece, a diventare pessimi e poco motivati soldati.
Una parte di studenti dell’ultimo anno di superiori, riuniti nel gruppo Shministin (di dodicesimo grado o anno scolastico) rifiutano completamente il servizio di leva in nome della non-violenza, alleandosi con i refuznikim.
Tutti insieme denunciano la magrezza dei salari che vengono corrisposti dall’esercito e il fatto che non siano affatto in linea con il costo della vita. Lo stipendio medio mensile di un soldato arruolato in unità combattente resta attestato sui 282 dollari.
Società israeliana in evoluzione
Il dibattito che si è aperto nell’Idf risponde a un bisogno profondo di cambiamento della società.
Fino ad oggi, infatti, nel bene o nel male, nelle guerre “pulite” e in quelle più “sporche”, si è sempre ribadito all’unisono da parte della società civile e delle alte sfere militari che l’Idf resta l’esercito “del popolo”, l’”esercito di tutti”: l’unica istituzione in grado di garantire il melting pot della società israeliana, contraddistinta da flussi migratori massicci e profondamente variegata al suo interno.
Oggi, invece, proponendo di mettere fine a quella esperienza, si sostiene che la leva universale è un’utopia, dato che solo il 53,5% degli uomini e il 37% delle donne servono nell’esercito. Che i figli dei ricchi aschenaziti, che un tempo rappresentavano il cuore delle unità d’élite come la famosa Brigata Golani, oggi disertano le unità combattenti per quelle di intelligence e ad alta tecnologia, pensando alle proprie opportunità professionali future più che al servizio allo stato.
Forse avrebbe più senso lasciare a ognuno la scelta individuale su sé, e in quale misura, contribuire alla vita pubblica. Soprattutto se, come affermano in molti anche tra le fila dell’esercito, la leva universale non corrisponde più a un bisogno di sicurezza.
Centomila mila uomini permanentemente in armi sarebbero una cifra sproporzionata rispetto alle esigenze di difesa dello stato e l’Idf non saprebbe cosa farsene di circa il 30% dei jobnik o “collari blu”, ovvero dei soldati di leva che siedono dietro le scrivanie di un ufficio.
Un dibattito aperto, quindi, destinato ad assumere sempre maggiore centralità nei prossimi anni.
Claudia De Martino è ricercatrice presso UNIMED, Roma.
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