Iraq, altro annus horribilis Mario Arpino 13/01/2014 |
Dall’Iraq non arrivano mai buone notizie. Bombe e autobombe continuano a dividere cittadini che vorrebbero invece vivere in pace e dedicarsi agli affari, il cui potenziale sviluppo - nonostante tutto - continua a rimanere elevato. Senza stabilità e democrazia però, ogni progresso è assai difficile. Soprattutto in Medioriente, dove questi due concetti sembrano divergere.
Oggi, l’unico simbolo esterno di democrazia - poco più di una mano di vernice - resta l’indubbia frequenza delle elezioni. Tra molte traversie, le ultime provinciali si sono tenute l’anno scorso, mentre le politiche sono al momento fissate per il 30 aprile. Evidentemente però, la vernice non è più sufficiente a coprire i problemi reali. Anzi, non è raro che venga usata per coprire e legittimare gli abusi e, nel contempo, dare qualche contentino all’Occidente che ci tiene tanto.
Triangolo della morte
Sanguinosi eventi continuano a colpire la provincia sunnita di Anbar, e non solo. Il “triangolo della morte” di Falluja, Baquba e Ramadi è da anni nelle cronache, ricomparendo come spettro di un passato che il generale statunitense David Petraeus sapeva di aver allontanato solo per il tempo necessario al passo indietro ordinato dal presidente Barack Obama.
Il numero dei morti si avvicina ai dati del 2007: allora erano soprattutto americani. Oggi sono esclusivamente iracheni. L’organizzazione non governativa inglese Iraqi Body Count parla di 4.574 vittime civili nel 2012 e forse 9.500 nel 2013. A questi va aggiunto il numero dei militari, non noto.
Il 1° gennaio è uscito il rapporto mensile dell’Onu, stilato da Nickolay Mladenov, l’ex ministro degli esteri bulgaro attualmente rappresentante speciale per l’Iraq del Segretario generale. Lo studio dichiara il 2013 come l’anno peggiore - in termini di morti e feriti per conflitti interni e attentati - dopo quell’annus horribilis che era stato il 2008. Il governatorato di Bagdad è quello più colpito.
Progetto califfato
La novità è che tra sciiti e sunniti il terzo incomodo è ancora Al-Qaeda, infiltratasi abilmente - come già aveva fatto in Siria - quando nell’aprile scorso il premier iracheno Nuri Al-Maliki e i suoi soldati sciiti avevano commesso l’errore di reprimere nel sangue i moti nella città sunnita di Hawija, dove i manifestanti chiedevano solo riforme e rispetto delle minoranze.
Da allora la setta, contrastata in modo non coordinato sia dall’esercito, sia dai miliziani sunniti di Al-Shawa, continua a conquistare - e poi a perdere - intere zone cittadine, a issare bandiere nere e a costituirsi in fantomatici “emirati islamici” indipendenti, dove governa con la sharia, la legge islamica. Il disegno, ora combattuto anche dai patrioti dissidenti siriani, è velleitario: un califfato che includa l’Iraq sunnita e il nord della Siria.
Al-Shawa era rimasta delusa dal trattamento riservatole da Al-Maliki dopo il ritiro degli americani (niente stipendio e niente inclusione nell’esercito), ma ora, se è vero che solo i suoi miliziani sanno davvero come combattere Al-Qaeda, è giocoforza riportarla alla ribalta. Al-Shawa ha ripreso le armi per attaccare i brigatisti, ma è pronta anche ad usarle contro chiunque non tenga fede ai patti.
Ma il duro Al-Maliki, pressato dall’urgenza e dalla ricerca di consenso, è tornato sui suoi passi e ha deciso di onorare i vecchi accordi, o qualcuno a cui il premier non può dire di no ha deciso di subentrargli nel sostegno alle milizie non qaediste. Potremmo essere persino già arrivati, pur senza averne la certezza, al paradosso di un Iran sciita che decida di finanziare formazioni di partigiani sunniti iracheni. Nessuno si meravigli, siamo in Medioriente.
Verso le elezioni politiche
Nel frattempo fervono i preparativi per le elezioni politiche del 30 aprile, sebbene il clima, al momento, sia piuttosto da guerra civile. Il premier, reclutante, sta azzardando qualche concessione: alla fine di novembre è stato approvato un emendamento alla legge elettorale in senso proporzionale, con ridistribuzione dei resti alle minoranze. Questo, in teoria, dovrebbe ampliare la presenza parlamentare anche dei gruppi più piccoli. Segnale incoraggiante - ancorché giudicato insufficiente - che al momento sembra tuttavia essere l’unico.
Al-Maliki continua per la sua strada, con l’obiettivo di ricandidarsi per un terzo mandato: nonostante la legge non lo preveda, molti sono già pronti a favorirlo. Dentro e fuori l’Iraq. Sostenuto a suo tempo da un innaturale connubio irano-americano, il premier è considerato dagli oppositori interni settario, autoritario e incurante dei diritti delle minoranze. Questo può forse dare una chiave di lettura alle violenze, ma rappresenta senza dubbio un problema nel problema.
Giornalista pubblicista, Mario Arpino collabora con diversi quotidiani e riviste su temi relativi a politica militare, relazioni internazionali e Medioriente. È membro del Comitato direttivo dello IAI.
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Oggi, l’unico simbolo esterno di democrazia - poco più di una mano di vernice - resta l’indubbia frequenza delle elezioni. Tra molte traversie, le ultime provinciali si sono tenute l’anno scorso, mentre le politiche sono al momento fissate per il 30 aprile. Evidentemente però, la vernice non è più sufficiente a coprire i problemi reali. Anzi, non è raro che venga usata per coprire e legittimare gli abusi e, nel contempo, dare qualche contentino all’Occidente che ci tiene tanto.
Triangolo della morte
Sanguinosi eventi continuano a colpire la provincia sunnita di Anbar, e non solo. Il “triangolo della morte” di Falluja, Baquba e Ramadi è da anni nelle cronache, ricomparendo come spettro di un passato che il generale statunitense David Petraeus sapeva di aver allontanato solo per il tempo necessario al passo indietro ordinato dal presidente Barack Obama.
Il numero dei morti si avvicina ai dati del 2007: allora erano soprattutto americani. Oggi sono esclusivamente iracheni. L’organizzazione non governativa inglese Iraqi Body Count parla di 4.574 vittime civili nel 2012 e forse 9.500 nel 2013. A questi va aggiunto il numero dei militari, non noto.
Il 1° gennaio è uscito il rapporto mensile dell’Onu, stilato da Nickolay Mladenov, l’ex ministro degli esteri bulgaro attualmente rappresentante speciale per l’Iraq del Segretario generale. Lo studio dichiara il 2013 come l’anno peggiore - in termini di morti e feriti per conflitti interni e attentati - dopo quell’annus horribilis che era stato il 2008. Il governatorato di Bagdad è quello più colpito.
Progetto califfato
La novità è che tra sciiti e sunniti il terzo incomodo è ancora Al-Qaeda, infiltratasi abilmente - come già aveva fatto in Siria - quando nell’aprile scorso il premier iracheno Nuri Al-Maliki e i suoi soldati sciiti avevano commesso l’errore di reprimere nel sangue i moti nella città sunnita di Hawija, dove i manifestanti chiedevano solo riforme e rispetto delle minoranze.
Da allora la setta, contrastata in modo non coordinato sia dall’esercito, sia dai miliziani sunniti di Al-Shawa, continua a conquistare - e poi a perdere - intere zone cittadine, a issare bandiere nere e a costituirsi in fantomatici “emirati islamici” indipendenti, dove governa con la sharia, la legge islamica. Il disegno, ora combattuto anche dai patrioti dissidenti siriani, è velleitario: un califfato che includa l’Iraq sunnita e il nord della Siria.
Al-Shawa era rimasta delusa dal trattamento riservatole da Al-Maliki dopo il ritiro degli americani (niente stipendio e niente inclusione nell’esercito), ma ora, se è vero che solo i suoi miliziani sanno davvero come combattere Al-Qaeda, è giocoforza riportarla alla ribalta. Al-Shawa ha ripreso le armi per attaccare i brigatisti, ma è pronta anche ad usarle contro chiunque non tenga fede ai patti.
Ma il duro Al-Maliki, pressato dall’urgenza e dalla ricerca di consenso, è tornato sui suoi passi e ha deciso di onorare i vecchi accordi, o qualcuno a cui il premier non può dire di no ha deciso di subentrargli nel sostegno alle milizie non qaediste. Potremmo essere persino già arrivati, pur senza averne la certezza, al paradosso di un Iran sciita che decida di finanziare formazioni di partigiani sunniti iracheni. Nessuno si meravigli, siamo in Medioriente.
Verso le elezioni politiche
Nel frattempo fervono i preparativi per le elezioni politiche del 30 aprile, sebbene il clima, al momento, sia piuttosto da guerra civile. Il premier, reclutante, sta azzardando qualche concessione: alla fine di novembre è stato approvato un emendamento alla legge elettorale in senso proporzionale, con ridistribuzione dei resti alle minoranze. Questo, in teoria, dovrebbe ampliare la presenza parlamentare anche dei gruppi più piccoli. Segnale incoraggiante - ancorché giudicato insufficiente - che al momento sembra tuttavia essere l’unico.
Al-Maliki continua per la sua strada, con l’obiettivo di ricandidarsi per un terzo mandato: nonostante la legge non lo preveda, molti sono già pronti a favorirlo. Dentro e fuori l’Iraq. Sostenuto a suo tempo da un innaturale connubio irano-americano, il premier è considerato dagli oppositori interni settario, autoritario e incurante dei diritti delle minoranze. Questo può forse dare una chiave di lettura alle violenze, ma rappresenta senza dubbio un problema nel problema.
Giornalista pubblicista, Mario Arpino collabora con diversi quotidiani e riviste su temi relativi a politica militare, relazioni internazionali e Medioriente. È membro del Comitato direttivo dello IAI.
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