Blog di sviluppo per l'approfondimento della Geografia Politica ed Economica attraverso immagini, cartine, grafici e note.Atlante Geografico Statistico Capacità dello Stato.Parametrazione a 100 riferito al Medio Oriente. Spazio esterno del CESVAM - Istituto del Nastro Azzurro. (info:centrostudicesvam@istitutonastroazzurro.org)
sabato 31 dicembre 2016
venerdì 23 dicembre 2016
Israele: le visioni di Trump avanzano
giovedì 22 dicembre 2016
Iraq: prospettive di turbolenza
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Rischiano ancora una volta di naufragare i tentativi di avviare un effettivo processo di riconciliazione nazionale in grado di superare le divisioni settarie tra arabo-sunniti e sciiti, che con rilevanti interferenze esterne lacerano l’Iraq.
Un piano per un Iraq unito Un piano annunciato lo scorso ottobre dall'Alleanza nazionale irachena - contenitore di forze sciite comprendente a fasi alterne anche i seguaci di Moqtada Al-Sadr - mira a disegnare l'assetto della gestione condivisa del Paese dopo l'attesa presa di Mosul. Il piano affida alla Missione delle Nazioni Unite in Iraq, Unami, guidata dallo slovacco Jan Kubis, un duplice ruolo: di facilitare la definizione dei contenuti e della partecipazione delle forze politiche, e di ottenere il sostegno al processo di riconciliazione sia dei paesi della regione, che della Lega araba e dell'Organizzazione della conferenza islamica, affinché nei confronti di chi lo ostacola possano essere usati strumenti di cui dispone l’Onu. Al processo, secondo quanto annunciato, dovrebbero partecipare tutte le forze politiche inclusi i gruppi armati, con l'esclusione dell'autoproclamatosi “stato islamico”. Il fine è di concordare, in attuazione della Costituzione irachena, la distribuzione dei poteri e l'uso delle risorse tra Governo federale, Governo Regionale del Kurdistan (Krg), e Governi provinciali, e di risolvere i problemi del ritorno dei milioni di profughi interni o espatriati e della ricostruzione delle aree distrutte. Il progetto è stato un investimento politico per il leader dell'Alleanza nazionale (sciita), Hamar al-Hakim, ma soprattutto per il primo ministro Haider al-Abadi che ha varato in agosto una legge sull'amnistia e ha gestito con relativo successo, almeno finora, l'unità di azione nella lotta allo “stato islamico” con il suo comando dell'esercito, dei peshmerga curdi e delle milizie sciite e sunnite. Almeno a parole, Abadi è stato sostenuto dall'ex-Primo Ministro Nouri al-Maliki, che ha però ostacolato in Parlamento molte iniziative del governo, promuovendo anche la sfiducia dei Ministri della Difesa e delle Finanze. Le Unità di mobilitazione popolare Questo ambizioso programma, visto con favore dalla Comunità internazionale, è ora messo in pericolo dall'approvazione parlamentare, a fine novembre, di un provvedimento voluto soprattutto da Al-Maliki. La misura attribuisce formalmente alle Unità di mobilitazione popolare, le Ump (eterogenei gruppi armati comprendenti le tradizionali milizie sciite come il Badr Corps ed altre formazioni, molte operanti con una diretta assistenza iraniana) il ruolo di terzo attore della sicurezza nazionale assieme all'esercito e alla polizia. Dopo l’approvazione, i partiti sunniti hanno abbandonato il Parlamento, come lo stesso Presidente dell'assemblea, Salim al-Jabouri. Diversi sono stati gli annunci di ritiro dal processo di riconciliazione. La consistenza delle Ump si è rafforzata numericamente dopo l'appello del 2014 del Grande Ayatollah Al-Sistani ad unire le forze contro l’autoproclamatosi “stato islamico” quando questo, sfondate le precarie resistenze dell'esercito iracheno, era sulla via di Baghdad. Alle formazioni sciite si aggiungono, sotto la stessa denominazione, alcuni modesti gruppi sunniti impegnati nella lotta all'Isis: quelli tribali della Provincia di Anbar e quelli della Provincia di Ninive prevalentemente organizzati dall'ex-Governatore di Mosul Athel al-Nujafi. I partiti arabo-sunniti vorrebbero che gli appartenenti alle Ump - in alcuni casi responsabili di efferate azioni di rappresaglia e punizioni collettive a danno delle popolazioni sunnite nelle aree sottratte al sedicente “stato islamico” - siano integrati individualmente nelle forze armate e di polizia invece di essere costituite terza forza di sicurezza del Paese. Contrarietà condivisa dal leader sciita Moqtada Al Sadr - spesso sensibile alle posizioni arabo-sunnite inquadrate nel nazionalismo iracheno -, in questa fase avversario di Al-Maliki, delle sue mire di ritorno al potere e della sua intenzione di impiegare le Ump in Siria una volta liberata Mosul. Moqtada sta cercando assieme al Presidente della Repubblica, il curdo Fuad Masum, una mediazione che possa evitare il naufragio del piano di riconciliazione nazionale attraverso una revisione emendativa della legge. Quest’ultima potrebbe consistere nell’aumento della percentuale di arabo-sunniti nella nuova forza armata (che richiederebbe nuovi reclutamenti), nell'esclusione dei responsabili di violenze ai danni della popolazione e l'esclusione delle Ump sciite dal controllo delle zone liberate. Incognita Trump Senza un accordo sulle Ump è assai probabile che il processo di riconciliazione nazionale, accolto inizialmente in modo positivo anche dalle forze arabo-sunnite, diventi rapidamente un'altra occasione perduta. Un ruolo importante lo avranno, come sempre, i Paesi limitrofi. In particolare l'Iran, che dopo aver accettato assieme agli Usa la sostituzione di Al-Maliki con al-Abadi nel 2014 sembra ora voler mantenere un ruolo autonomo per le Ump, dotate delle capacità militari fornite da Teheran. Altro attore cruciale potrebbe essere l'Arabia Saudita, qualora non volesse favorire il processo di riconciliazione tra arabo-sunniti e sciiti ritenendo che questo avvantaggi l'Iran. Ed infine c’è la Turchia, che sostiene gli arabo-sunniti di Al-Nujafi per tenere lontane le milizie sciite e contenere i curdi iracheni, ora suoi alleati sotto la leadership di Massud Barzani. Un’alleanza che potrebbe vacillare se Barzani decidesse di dare seguito all'annuncio di un referendum per la costituzione di uno stato indipendente. Su tutto pesa l'incognita di quale sarà la politica della nuova Amministrazione Trump, che si preannuncia contro l’Iran e contemporaneamente desiderosa di trovare un’intesa con la Russia. Al-Maliki sembra cercare appigli ricordando i buoni rapporti che aveva con i repubblicani di Bush, suoi co-sponsors parallelamente ai loro nemici iraniani. E al tempo stesso il Presidente eletto suscita aspettative nei curdi che starebbero intensificando i loro rapporti sotterranei con Israele. Anche sugli sviluppi in Iraq pesa inevitabilmente la grande imprevedibilità introdotta nello scenario internazionale dall'elezione di Trump. Maurizio Melani è Ambasciatore d'Italia. |
venerdì 9 dicembre 2016
Le incertezze degli Stati Uniti: sempre più precarietà
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Arabia Saudita: la corsa ai ripari
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Tempi di ansia acuta per gli stati del Golfo. Da una parte il collasso dell’ordine regionale, dall’altra il tentativo di immunizzarsi dalle sue ripercussioni, premendo l’acceleratore sul pedale dell’integrazione, per trasformare il Consiglio di Cooperazione del Golfo, Gcc, in una Unione.
Anche se le minacce poste dai terroristi di Al-Qaeda e dell’autoproclamatosi “stato islamico”, così come l’influenza della Fratellanza Musulmana, si sono in parte contratte, questi pericoli continuano ad esistere. Lo stesso vale per le sfide socio-domestiche con le quali il Golfo ha dovuto fare i conti durante la stagione delle “primavere arabe”. Anche se appaiono ora più gestibili, non sono sparite del tutto. In aggiunta, la crescita del potere regionale di Russia e Iran sta mettendo alla prova l’asse delle tradizionali alleanze. Gli ingenti investimenti fatti dai Paesi del Golfo in Egitto, Yemen e Siria non hanno poi prodotto i risultati attesi. Anzi, il tentativo di influenzare la politica regionale è stata un’operazione azzardata anche per Paesi come questi, le cui casse non hanno mai rischiato di rimanere a secco. Basta pensare a come sono stati ricompensati i sauditi per aver tenuto artificialmente in vita l’economia egiziana. Non solo non sono riusciti a mettere le mani sopra Tiran e Sanafir - le tanto contese isole del Mar Rosso che il presidente Abdel Fattah Al-Sisi ha promesso di cedere alla petromonarchia, prima di essere bloccato dalle manifestazioni di strada e dai tribunali nazionali - ma hanno anche dovuto contrastare la politica estera egiziana sulla Siria, visto che Al-Sisi si è mostrato molto più sensibile alle esigenze del presidente Assad, arcinemico degli Al-Saud, che a quelle del nuovo sovrano. Per non parlare del disinteresse egiziano sul fronte yemenita. Manama dialogues 2016 Abbandonando ormai ogni speranza sulla possibile nascita della cosiddetta Nato araba - l’ambizioso esercito comune di cui la Lega Araba parla sin dalla sua nascita - per cercare di dare una risposta comune a questa ansia regionale, l’Arabia Saudita e il Bahrein hanno deciso di rilanciare il progetto di un’unione del Golfo. Sarà questo il tema al centro dei tradizionali Manama dialogues che si terranno quest’anno tra il 9 e l’11 dicembre. Nelle parole del ministro degli Affari del Golfo saudita Thamer Al-Sabhan, le relazioni tra gli stati del Golfo non sono mai state così forti e questo renderebbe ancora più fertile il terreno dell’integrazione regionale. A mostrare questa coesione, secondo Al-Sabhan, sarebbe anche il recente viaggio compiuto da re Salman tra i diversi Paesi. Tour che non ha però toccato l’Oman, Paese fondatore del Ccg che da anni non sembra affatto entusiasta dal processo di ulteriore integrazione. Unione del Golfo: l’opposizione dell’Oman e i dubbi di Kuwait, Qatar ed Emirati Il fatto che l’Oman si sfili dal progetto non sembra però preoccupare Bahrein e Arabia Saudita che esacerbando i fattori di rischio securitario regionale stanno facendo il possibile per convincere tutti gli altri stati a compiere gli sforzi necessari per difendersi, collettivamente, dalle minacce esterne. Non tutti però sembrano convinti che valga la pena cedere sovranità - e quindi indipendenza - per ottenere i benefici derivanti da una maggior cooperazione securitaria. Il Kuwait - stato conosciuto per avere le istituzioni più democratiche e la vita politica più vibrante del Ccg - teme ad esempio gli effetti che eventuali azioni di sicurezza collettiva potrebbero avere sulla società civile locale. Il timore è che l’Arabia Saudita o altri stati del Golfo tentino di silenziare quelle voci di dissenso che sono riuscite anche ad entrare in parlamento nel corso delle recenti elezioni. Questo spiega anche le resistenze al progetto di Unione diffuse tra la popolazione che da anni afferma orgogliosamente di vivere in una mezza democrazia. A tale questione si somma quella relativa alla disputa petrolifera tra i due Paesi. I sauditi continuano infatti a pompare petrolio dai campi di Al-Khefji, ubicati nella zona neutrale tra i due Paesi, cercando quasi di anticipare la caduta delle frontiere che seguirebbe la creazione di una Unione. Questioni energetiche sarebbero anche alla base dei dubbi del Qatar. Doha teme infatti di essere costretta a condividere parte della sua ricchezza con gli stati “più poveri” dell’eventuale Unione. In aggiunta, qualora vi aderisse, al Qatar sarebbe chiesto di smettere di esercitare il ruolo di protettore nei confronti delle diverse fazioni islamiste, in primis la Fratellanza Musulmana, che negli ultimi anni hanno trovato rifugio nei suoi confini. Ad essere titubanti su un’eventuale accelerazione dell’integrazione regionale anche gli Emirati Arabi Uniti che da sempre si ritengono i principali rivali finanziari dell’Arabia Saudita. Difficile pensare che gli emiri sarebbero pronti a sostenere la nascita di un’eventuale banca centrale guidata da Riad. Il fronte anti-Iran del Golfo fatica a decollare Come ben spiegato da Giorgio Cafiero su Gulf Pulse c’è poi il fattore Iran, Paese che l’eventuale Unione tenderebbe a isolare. Se da una parte l’Oman ha interessi a rafforzare i rapporti commerciali con Teheran, dall’altra i leader di Kuwait e Qatar non sarebbero propensi a mettere in discussione la normale relazione con l’Iran visto che, a differenza del Bahrein e dell’Arabia Saudita, non hanno problemi con le comunità sciite presenti all’interno dei loro Paesi. In questa ottica, l’alleanza tra Manama e Riad in chiave anti-sciita appare un tandem destinato a camminare da solo. Qualcosa potrebbe forse cambiare con l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca,visto che il nuovo presidente è certamente meno propenso della sua sfidante a garantire la sicurezza della regione. Ciononostante, la sua politica estera è poco prevedibile e anche per questo non sarà, da sola, il motore dell’integrazione regionale. Nonostante i proclami fatti alla vigilia, è quindi difficile pensare che a Manama l’Unione del Golfo prenda forma. Le divergenze tra gli Stati coinvolti non fanno del Golfo un terreno attualmente fertile a un’ulteriore integrazione. Le minacce alla stabilità regionale potrebbero però tenere in vita il progetto, rimandandolo a tempi più propensi. Azzurra Meringolo è ricercatrice presso lo IAI e caporedattrice di Affarinternazionali. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir. | ||||||||
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