venerdì 26 agosto 2016

Il traffico di Armi:un affare

Medio Oriente
Caos mediorientale, l’altra faccia della medaglia
Lorenzo Kamel
10/09/2016
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In numerosi articoli apparsi di recente su media europei e americani, ampie aree del Mediterraneo meridionale e orientale appaiono come luoghi lontani, per alcuni versi oscuri, a lungo caratterizzati da un’atavica “assoluta stagnazione”, in cui le popolazioni locali sono influenzate da ancestrali fratture tribali e religiose.

Diversi studi accademici hanno decostruito i termini utilizzati in queste analisi, nonché l’immagine che tendono a convogliare.

Il focus di questo articolo è distinto ma strettamente connesso a questi aspetti: quanto la regione sta vivendo non dovrebbe in alcun modo essere percepito come qualcosa a “noi” di estraneo, o esterno. A confermare ciò non è - o almeno non soltanto - un passato relativamente lontano, bensì un presente che ostacola la costruzione di un futuro sostenibile.

Non (solo) il passato
Le risorse naturali (petrolio, oro, gas ecc) presenti nella quasi totalità dei Paesi africani e in un numero significativo di stati nel Mediterraneo orientale sono pilotati attraverso società off-shore che, in larga misura, sono collegate a imprese e uomini d’affari operanti in Europa e in America.

Come hanno confermato i documenti emersi dai Panama Papers, i paradisi fiscali sono utilizzati come strumenti volti a prosciugare le ricchezze naturali di alcuni dei Paesi più poveri del mondo.

Le risorse naturali sono oggi sempre più drenate dall’economia civile verso quella militare: anche in questo caso diversi attori europei svolgono il ruolo di co-protagonisti nell’intero processo.

Basti pensare che l’equivalente di un miliardo e 350 milioni di euro in fucili, lanciarazzi, mitragliatrici pesanti, mortai e armi anti-carro sono attualmente esportati dall’Europa (Balcani in primis) verso il Medio Oriente: una percentuale significativa di essi sono utilizzati dai gruppi operanti in Siria e Yemen.

È degno di nota che nel corso del 2015 le esportazioni di armi tedesche sono raddoppiate: Arabia Saudita e Qatar risultano essere due dei principali mercati di riferimento.

Dati simili sono pertinenti anche per quanto concerne la Gran Bretagna e diversi altripaesi europei (da anni l’Italia non rende noti all’Ue i dati sulle consegne: ciò contribuisce a ostacolare il calcolo delle operazioni effettivamente condotte).

Il “contributo” proveniente dall’altra sponda dell’Atlantico non è meno considerevole. Nei primi sei anni dell’amministrazione Obama (“The Drone Presidency”), gli Stati Uniti hanno stipulato accordi per vendere in tutto il mondo oltre 19miliardi di dollari in armamenti: più di ogni altra amministrazione americana dalla seconda guerra mondiale a oggi.

A Washington è riconducibile il 33% delle vendite di armi a livello mondiale e il Medio Oriente rappresenta la principale destinazione di una larga maggioranza di esse (con l’Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti in cima alla lista delle esportazioni e l’Iraq e l’Egitto tra i primi dieci mercati).

Particolarmente devastanti sono stati gli effetti delle bombe (in larga parte difabbricazione italiana) e dei missili forniti ai sauditi per la loro guerra in Yemen, dovepiù di 370 mila bambini rischiano al momento di morire di fame.

Droni, visti dagli “altri”
La questione dei droni armati nel contesto mediorientale richiede una particolare attenzione. Non disponiamo ancora di dati definitivi sull’impatto dei droni armati nella regione. È tuttavia acclarato che molte di queste operazioni sono effettuate senza il consenso dei Paesi interessati, né autorizzazioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu.

Numerosi studi hanno inoltre mostrato che una percentuale elevata - pari in alcuni casi a circa il 90% del totale - degli omicidi extragiudiziali compiuti dai droni in alcune aree di paesi come l’Afghanistan, il Pakistan, lo Yemen e la Somalia era/è composta da civili(“morti collaterali”).

Come notato da Audrey Cronin in Drones and the Future of Armed Conflict, in genere i gruppi terroristici non vengono sconfitti attraverso degli interventi militari, bensì quando si riesce a isolarli dalle comunità che possono potenzialmente sostenerli.

Per molti versi la “guerra globale dei droni”, a cui anche la Cina sta contribuendo in modo considerevole, sta ottenendo l’effetto opposto. Quanti sono a favore dell’uso dei droni, ha testimoniato Radhya al-Mutawakel, direttrice di un’organizzazione per i diritti umani (Mwatama) basata a Sana’a, “li descrivono come armi precise e tecnologicamente avanzate che limitano le possibilità di colpire civili. Noi, yemeniti, non siamo d’accordo. I droni non portano né pace né sicurezza. Portano morte, distruzione, sofferenza, perdita di vite umane e ne comportano un irreparabile stravolgimento per generazioni”.

Sovente queste e altre considerazioni trovano scarso eco negli studi condotti sull’uso di varie armi (droni armati inclusi) esportate nella regione. Non pochi di questi lavori sono risultati essere fortemente influenzati da donatori privati mossi da specifici interessi .

Cui prodest?
È lecito chiedersi - da una prospettiva comparata che tenga conto del retaggio storico della regione - se queste politiche abbiano portato un qualche beneficio, o una sia pur limitata stabilizzazione della regione. Una delle possibili risposte è rintracciabile nei dati forniti dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, stando ai quali gli “incidents of terrorism” verificatisi dall’inizio della “guerra al terrore” (2001) sono aumentati del6500 per cento: la metà di essi sono avvenuti in Afghanistan e Iraq.

Ciò appare ancor più significativo qualora si consideri che, come confermato dalRapporto Chilcot, l'intervento in Iraq - la cui destabilizzazione ha avuto un “effetto terremoto” sull’intera regione - era “unnecessary”, le base giuridiche per l’azione militare erano “far from being satisfactory” e la principale giustificazione per l’attacco (possesso di armi di distruzione di massa) era fondata su dati fallaci.

Troppo spesso i nostri media - e di riflesso larga parte dell’opinione pubblica - tendono ad avvicinarsi alle lacerazioni che stanno interessando il Mediterraneo meridionale e orientale come qualcosa che riguarda popoli e paesi lontani, assuefatti a convivere con il terrore e in larga parte slegati dal “nostro” presente e passato.

È necessario superare questa segregante interpretazione che divide la “nostra storia” dalla “loro storia”, aprendo la strada a un approccio più umile verso i popoli della regione e il loro carico di sofferenza.

Lorenzo Kamel è responsabile di ricerca allo IAI e Marie Curie Experienced Researcher al Freiburg Institute for Advanced Studies (FRIAS). Libri più recenti: ‘Arab Spring and Peripheries’ (Routledge 2016) e ‘Imperial Perceptions of Palestine: British Influence and Power in Late Ottoman Times’ (I.B. Tauris 2015), finalista del Palestine Book Award 2016.
 

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