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Il conflitto israelo-palestinese è quasi “relegato” in secondo ordine dalla disgregazione del Medio Oriente - a un secolo esatto dagli accordi Sykes-Picot con cui Inghilterra e Francia stabilirono i confini interstatuali della regione - dal terrorismo islamista, dal cataclisma politico e umanitario che investe quell’area del globo.
Tanto più meritorio quindi l’impegno della Francia nel riunire, la settimana scorsa, in un summit la comunità delle nazioni per muovere le parti a una soluzione negoziata basata sul principio di “due stati per due popoli”. La storia lunga e accidentata dei rapporti fra Israele e i palestinesi dimostra che le due parti in lotta sono incapaci di giungere a un accordo senza l’impegno fattivo di un mediatore. La retorica cara agli israeliani e soprattutto all’attuale governo che la “pressione” esterna significa imporre una soluzione e che solo negoziati bilaterali possono produrre frutti è logicamente e storicamente falsa. Per l’Europa in particolare una soluzione di pace è un obiettivo che combina interessi e valori. Interessi che vanno dalla stabilità nella regione alla battaglia contro l’estremismo islamista e alla violenza terroristica che colpisce le sue città. Valori che sono la tutela dei diritti umani, della democrazia e dell’autodeterminazione dei popoli. I costi della non pace Nell’attuale frangente è importante decifrare quanto accadrà in Israele, con il potere straripante della destra nazionalista e i contrasti acuti fra ministri dell’attuale governo - Avigdor Lieberman, in particolare, da pochi giorni alla Difesa - e i vertici dell’esercito circa l’etica delle armi. Quanto accade in Israele, data l’asimmetria di potere effettivo sul campo rispetto ai palestinesi, è difatti determinante per il corso degli eventi. I palestinesi hanno compiuto errori immani, dal terrorismo suicida contro i civili israeliani all’inutile guerriglia mossa dalla striscia di Gaza, ma sono oggi divisi fra Cisgiordania e Gaza, Autorità nazionale palestinese e Hamas, osteggiati dal mondo arabo, largamente impotenti. Essi non sono cittadini dello stato in cui vivono, Cisgiordania o la striscia di Gaza, dove non esercitano il diritto di voto da dieci anni, né votano per le istituzioni dello stato - Israele - che di fatto controlla la loro esistenza quotidiana. Ma ritenere che il conflitto fra Israele e Palestina sia meno rilevante e che lo status quopossa essere sostenuto indefinitamente è un errore . La convinzione prevalente in Israele che il conflitto possa essere contenuto in forme a “bassa intensità” senza essere risolto è illusoria così come l’idea che nel disordine regionale convenga a Israele non assumere un’iniziativa di pace. I costi umani e materiali della “non pace” sono infatti enormi, come attestano gli orrori della guerra di Gaza del 2014 o le aggressioni a colpi di coltello che insanguinano da mesi le strade di Israele e della Cisgiordania e la minaccia crescente di un degrado della democrazia e della stessa convivenza fra arabi ed ebrei in Israele. Oltre allo stallo politico, vi è una profonda separazione fra le due società, quella ebraico-israeliana e quella arabo-palestinese. Nella psicologia dei palestinesi Israele è l’occupante, l’aggressore; per gli israeliani i palestinesi sono il nemico omicida, ingrato e irriducibile che non merita fiducia né diritti di popolo e stato. Per questo è importante guardare a iniziative innovative che scaturiscono dalla società civile, tentando di scalfire l’immobilismo che domina la sfera politica. Ecopeace Middle East Due esempi, fra i tanti. L’uno riguarda il tema ambientale e delle risorse idriche. Ecopeace Middle East è una Ong tripartita israelo-giordano-palestinese, un unicum del genere nel vasto universo delle Ong in cui israeliani e palestinesi cooperano per superare la separazione “disumanizzante”, nonostante l’opposizione del fronte palestinese di “antinormalizzazione” - che rifiuta ogni forma di cooperazione con Israele, fino a quando perdura l’occupazione e il negoziato di pace è bloccato - e da un’attitudine dell’attuale governo israeliano che discrimina le Ong israeliane attive nel campo dei diritti umani e della pace. Israele, in virtù della tecnologia avanzata in materia di trattamento delle acque di scarico e di impianti di desalinizzazione, ha un surplus di produzione rispetto al consumo con cui potrebbe risolvere il dramma della scarsità di acqua potabile che grava invece sulla Cisgiordania e soprattutto sulla striscia di Gaza , dove la situazione sanitaria è a forte rischio di epidemie. La questione dell’acqua che dagli accordi di Oslo è uno dei cinque oggetti del negoziato, insieme ai confini, gli insediamenti, i rifugiati, lo status di Gerusalemme, potrebbe essere risolta in modo equo, efficace e benefico per le parti in causa e offrire anche un esempio per la soluzione delle altre questioni contese. Sostegno regionale a una soluzione di pace Il secondo viene dalla Israeli Peace Initiative, un’associazione di esponenti dell’accademia, imprenditoria, esercito, intelligence che intende sollecitare quella parte dell’opinione pubblica di centro e pragmatica, ma scettica o rassegnata all’idea di un conflitto irrisolvibile, a mobilitarsi ed agire per giungere a una soluzione pacifica. Una soluzione che può scaturire soltanto se al negoziato fra le due parti si affianca un accordo regionale che lo sostenga sia sul piano economico, per la riabilitazione dei rifugiati palestinesi da integrarsi in parte in un futuro stato di Palestina e in parte nei paesi arabi, sia su quello strategico per fornire a Israele le necessarie garanzie di sicurezza in una regione ora scossa da acuti sconvolgimenti. A questo fine Israele dovrebbe accettare di negoziare sulla base dell’offerta di pace avanzata dalla Lega araba nel 2002 e riaffermata in anni recenti, reagire al crescente isolamento diplomatico, e cogliere le opportunità offerte da un oggettivo convergere di interessi con l’Autorità palestinese e gli stati arabi, soprattutto Arabia Saudita, Giordania, Egitto, ed emirati del Golfo, per opporsi all’estremismo islamista da un lato e alla minaccia iraniana dall’altro. Giorgio Gomel, economista, è membro del Comitato direttivo di Jcall, un’associazione di ebrei europei impegnata nel sostegno ad una soluzione “a due stati” del conflitto israelo-palestinese. Il tema dei rapporti politico-economici fra l'Europa e Israele è stato ampiamente trattato in “Europe and Israel: a complex relationship”. |
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martedì 7 giugno 2016
Israele: i costi della non pace
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