Proprio nel giugno di due anni fa, l’autoproclamatosi “stato islamico” catturava la città di Mosul e si impadroniva di altri centri abitati iracheni con un’impressionante avanzata, giungendo quasi alle porte di Baghdad. Oggi la situazione è ben diversa. Una campagna su più fronti, in Iraq e Siria, sta gradualmente sottraendo territorio al sedicente califfato.
Daesh mostra segni di logoramento, potendo contare su minori introiti anche a causa della parziale distruzione del suo business petrolifero. A rendere ancora lontana la vittoria finale sul califfato non è la forza di quest’ultimo, ma la debolezza e la frammentazione dei suoi avversari.
Falluja, simbolo del conflitto iracheno Lo scorso 23 maggio, il governo iracheno annunciava un’offensiva contro Falluja, roccaforte di Daesh a meno di 70 km da Baghdad. L’azione, fortemente voluta dalle milizie sciite e dall’Iran oltre che dal governo, ha scontentato parzialmente Washington che avrebbe preferito dare la precedenza alla liberazione di Mosul, capitale irachena del califfato.
Sebbene la distruzione dello stato islamico sia obiettivo condiviso da iraniani e americani, la competizione per l’influenza in Iraq ha la meglio sulla cooperazione nella lotta contro di esso. Falluja è una spina nel fianco per il governo iracheno, che la considera uno dei principali centri da cui Daesh semina il terrore, inviando attentatori suicidi e autobomba nella vicina capitale.
La città riveste un ruolo simbolico. Essa fu una roccaforte dell’opposizione baathista e dell’insorgenza sunnita durante l’occupazione Usa. Dal 2012 fu sede di continue proteste contro il governo. Nel 2014 fu la prima città a cadere nelle mani di Daesh. Diversi leader tribali locali hanno giurato fedeltà all’organizzazione.
Washington teme perciò che la liberazione di Falluja possa portare a vendette a sfondo settario, che a loro volta complicherebbero la campagna di Mosul. La valenza simbolica della città travalica le contrapposizioni locali, acquisendo una dimensione regionale.
Dall’Arabia Saudita stanno arrivando tonnellate di aiuti a Falluja e alla provincia di Anbar che la ospita. Gli aiuti, pur avendo finalità principalmente umanitarie, sono dettati dalla solidarietà intra-sunnita e dalla rivalità con l’Iran. E per ammissione delle stesse autorità saudite, fra essi si infiltrano anche finanziamenti agli uomini del califfato.
Nel frattempo l’offensiva contro Mosul, annunciata con enfasi lo scorso marzo, non registra progressi. E i sanguinosi scontri verificatisi ad aprile fra curdi e sciiti turcomanni nella cittadina di Tuz Khurmatu, 90 km a sud di Kirkuk, sono solo un assaggio dei conflitti etnico-settari che la conquista della capitale del califfato potrebbe far esplodere.
La “corsa verso Raqqa” Quasi contemporaneamente al lancio dell’offensiva contro Falluja, le Forze democratiche siriane (Fds) annunciavano l’inizio della campagna contro Raqqa, epicentro di Daesh in Siria. Sostenute da Washington, le Fds hanno una crescente componente araba al loro interno, ma rimangono forze a maggioranza curda. È questa la ragione principale per cui l’azione verso Raqqa si è ben presto trasformata in un’offensiva diretta a ovest, verso Manbij, con l’obiettivo di isolare Daesh dal confine turco-siriano.
I curdi sognano da tempo di unire l’enclave occidentale di Afrin al resto del territorio curdo, situato a est dell’Eufrate. Questo progetto è fortemente osteggiato dalla Turchia. Per il momento, Ankara sembra aver accettato a malincuore l’offensiva sponsorizzata dagli americani, solo perché i gruppi ribelli appoggiati dai turchi stavano a loro volta soccombendo al califfato. Questo non significa però che la Turchia abbia dato il via libera alle ambizioni curde.
Per contro, un’offensiva dei curdi verso Raqqa non solo non interessa a questi ultimi, ma è osteggiata da molte tribù arabe della regione, ostili alla presenza curda. Sono Daesh e il regime di Damasco a contendersi la lealtà di queste tribù. Le truppe del regime hanno anch’esse intrapreso un’avanzata verso Raqqa, da sudovest, nella speranza di contendere alle forze filo-americane il controllo della Siria orientale quando il califfato sarà sconfitto.
Daesh sopravvive grazie ai suoi nemici Così come in Iraq vi è una concorrenza tra forze rivali nella lotta contro Daesh, la “corsa verso Raqqa” in Siria è una gara fra attori in competizione tra loro. Sia le Fds che le forze leali a Damasco sono dispiegate su un fronte troppo esteso e perciò non sono in grado di minacciare seriamente Raqqa senza esporsi ad attacchi nelle retrovie.
In Iraq, un’ulteriore complicazione è data dalla debolezza del governo iracheno, che rischia di sprofondare sotto il peso delle tensioni intra-sciite. La recente occupazione del parlamento da parte di una folla di sostenitori del leader Muqtada al-Sadr ha rappresentato un chiaro campanello d’allarme a tale riguardo.
Nei prossimi mesi il califfato continuerà probabilmente a perdere terreno, e a ricorrere sempre più ad azioni strettamente terroristiche come attentati e attacchi suicidi, rinunciando alle precedenti azioni militari su vasta scala.
Ciononostante, né la caduta di Raqqa né tantomeno quella di Mosul paiono imminenti. Ed anche quando ciò accadrà, grazie alle rivalità locali e regionali a cui si è accennato, Daesh potrà riemergere di volta in volta come formazione terroristica o dando vita a piccoli emirati temporanei, comunque mantenendo in vita la sua ideologia.
Roberto Iannuzzi è ricercatore presso l’Unimed (Unione delle Università del Mediterraneo). È autore del libro “Geopolitica del collasso. Iran, Siria e Medio Oriente nel contesto della crisi globale (Twitter: @riannuzziGPC).
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