Medio Oriente Iran: ballottaggi, conservatori vogliono riscatto Anna Vanzan 09/04/2016 |
Dopo la firma del trattato sul nucleare e le elezioni per il rinnovo del Parlamento, l’Iran pare avviato a una nuova era. La domanda che tutti si pongono è se e come cambierà la politica iraniana.
Dal punto di vista delle relazioni esterne, importanti mutamenti sono già all’opera: da ogni angolo del mondo, ministri e delegati di ogni tipo di impresa si sono letteralmente precipitati sull’altopiano iranico in cerca accordi che dovrebbero fornire all’Iran investimenti, merci e know how in cambio, ovviamente, di quelle materie prime di cui il paese è ricco. Non tanto il greggio (il cui prezzo è ai minimi storici), ma, soprattutto, il gas, di cui l’Iran detiene la seconda maggior riserva al mondo dopo la Russia.
Tempi d’oro per Teheran
Il momento è favorevole, non solo in virtù della pace firmata da Teheran e le sei potenze mondiali, ma anche perché, in quel marasma che è divenuto il Medio Oriente, l’Iran appare essere il Paese più sicuro.
Già prima della firma del trattato sul nucleare, l’Iran aveva riscoperto il potere del turismo e nel 2015 milioni di visitatori sono entrati in quello che per decadi era stato bollato come “stato canaglia”. Da sottolineare, peraltro, che, anche nei tempi duri della presidenza Ahmadinejad, quando la popolarità della Repubblica Islamica era scesa ai minimi storici e il Paese era stretto tra la corruzione e la repressione, l’Iran non si è mai dimostrato una terra inospitale o pericolosa nei riguardi degli stranieri, statunitensi compresi.
Ulteriori speranze di distensione interna ed esterna sono state alimentate dai risultati della tornata elettorale di febbraio, volta a ridisegnare il parlamento iraniano. In questo caso, però, il wishful thinking supera la realtà: ovvero, il desiderio degli occidentali di ridisegnare la politica mediorientale iniziando dall’Iran e, soprattutto, di ritessere trame politiche e economiche sdrucite dai tempi dello shah, rischia di fare più danni piuttosto che concretizzare possibili risultati positivi.
Tradizionalisti al palo, per ora
Da un lato, è vero che queste elezioni hanno segnato un’importante novità: se, infatti, nell’attuale Parlamento i gruppi conservatori detengono circa il 70% dei seggi, l’assemblea entrante è, al momento, occupata dai conservatori solo al 26,9%. Al momento, però: perché il 29 aprile gli iraniani torneranno a votare per assegnare quel 21,1% di seggi che sono rimasti sospesi e legati al ballottaggio.
Ad oggi, è stato assegnato alla compagine che si stringe più o meno compatta attorno al presidente della Repubblica, il riformista Rouhani, il 28,7% dei seggi, mentre il 20,7% è stato conquistato dagli indipendenti.
È bene, quindi, mantenere un cauto atteggiamento di speranza in attesa dei risultati definitivi post-ballottaggio. Inoltre, bisogna tenere a mente che i conservatori, quando si vedono stretti alle corde, spesso risolvono la situazione con altri sistemi: proprio a un mese dal conteggio della prima fase elettorale, infatti, il Consiglio dei Guardiani ha comunicato di voler cancellare l’elezione di una delle 14 donne neo-deputate, Minu Khakeghi, votata nella circoscrizione di Isfahan nel gruppo riformista.
Il Consiglio dei Guardiani non ha motivato la sua decisione, che, peraltro, ha provocato sconcerto e preoccupazione. Pare proprio trattarsi di una rabbiosa reazione al fatto che gli elettori di Isfahan, città tradizionale e conservatrice, abbiamo invece consegnato al Parlamento ben cinque deputati riformisti, due dei quali donne.
Rouhani, un successo dietro l’altro
Altro aspetto di cui tener presente è il gioco di potere, soprattutto economico, che si svolge fuori dal Parlamento: il presidente Rouhani risulta vittorioso sui conservatori grazie ai successi riportati tanto con la firma dell’accordo sul nucleare quanto con il nuovo assetto del Parlamento, ma ciò non significa che i poteri forti siano intenzionati a lasciargli campo libero.
Anzi, proprio pochi giorni fa, nientemeno che la Guida Suprema, l’ayatollah Khamenei, augurando buon anno nuovo alla popolazione (iniziato il 21 marzo scorso), ha ribadito come gli Stati Uniti stiano a suo giudizio vanificando l’accordo sul nucleare mantenendo in vita molte delle pastoie economiche messe in atto dalla pratica delle sanzioni.
Ancora economia della resistenza
Khamenei ha quindi chiamato i suoi ad attuare una “economia della resistenza”. Ovvero, un’economia basata ancora una volta sull’isolamento dell’Iran dal resto del mondo, Cina esclusa, visto l’enorme giro di affari che la Repubblica islamica ha tessuto con Pechino e che non diminuirà neppure dopo la firma del trattato sul nucleare, ma che è invece destinato ad aumentare fino a raggiungere parecchie centinaia di miliardi di dollari.
Fra l’atteggiamento delle potenze mondiali e le lotte di potere intestine giocherà un ruolo cruciale la società civile iraniana, che si è dimostrata poco incline a ricorrere a mezzi cruenti per affermare la propria volontà: la storia dell’Iran del 1900 è disseminata di guerre esterne e interne per le quali gli iraniani hanno già pagato un prezzo altissimo.
Piuttosto, gli iraniani confermano la loro grande duttilità nei confronti di ogni tipo di avversità e il loro pragmatismo, anche nell’adottare leader che certo non rispecchiano appieno la loro volontà, ma che sembrano poter garantire loro accettabili condizioni di vita materiali, culturali e sociali.
Anna Vanzan, iranista e islamologa, Ph.D. in Near Eastern Studies presso la New York University. Insegna Cultura araba alla Statale di Milano.
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Tempi d’oro per Teheran
Il momento è favorevole, non solo in virtù della pace firmata da Teheran e le sei potenze mondiali, ma anche perché, in quel marasma che è divenuto il Medio Oriente, l’Iran appare essere il Paese più sicuro.
Già prima della firma del trattato sul nucleare, l’Iran aveva riscoperto il potere del turismo e nel 2015 milioni di visitatori sono entrati in quello che per decadi era stato bollato come “stato canaglia”. Da sottolineare, peraltro, che, anche nei tempi duri della presidenza Ahmadinejad, quando la popolarità della Repubblica Islamica era scesa ai minimi storici e il Paese era stretto tra la corruzione e la repressione, l’Iran non si è mai dimostrato una terra inospitale o pericolosa nei riguardi degli stranieri, statunitensi compresi.
Ulteriori speranze di distensione interna ed esterna sono state alimentate dai risultati della tornata elettorale di febbraio, volta a ridisegnare il parlamento iraniano. In questo caso, però, il wishful thinking supera la realtà: ovvero, il desiderio degli occidentali di ridisegnare la politica mediorientale iniziando dall’Iran e, soprattutto, di ritessere trame politiche e economiche sdrucite dai tempi dello shah, rischia di fare più danni piuttosto che concretizzare possibili risultati positivi.
Tradizionalisti al palo, per ora
Da un lato, è vero che queste elezioni hanno segnato un’importante novità: se, infatti, nell’attuale Parlamento i gruppi conservatori detengono circa il 70% dei seggi, l’assemblea entrante è, al momento, occupata dai conservatori solo al 26,9%. Al momento, però: perché il 29 aprile gli iraniani torneranno a votare per assegnare quel 21,1% di seggi che sono rimasti sospesi e legati al ballottaggio.
Ad oggi, è stato assegnato alla compagine che si stringe più o meno compatta attorno al presidente della Repubblica, il riformista Rouhani, il 28,7% dei seggi, mentre il 20,7% è stato conquistato dagli indipendenti.
È bene, quindi, mantenere un cauto atteggiamento di speranza in attesa dei risultati definitivi post-ballottaggio. Inoltre, bisogna tenere a mente che i conservatori, quando si vedono stretti alle corde, spesso risolvono la situazione con altri sistemi: proprio a un mese dal conteggio della prima fase elettorale, infatti, il Consiglio dei Guardiani ha comunicato di voler cancellare l’elezione di una delle 14 donne neo-deputate, Minu Khakeghi, votata nella circoscrizione di Isfahan nel gruppo riformista.
Il Consiglio dei Guardiani non ha motivato la sua decisione, che, peraltro, ha provocato sconcerto e preoccupazione. Pare proprio trattarsi di una rabbiosa reazione al fatto che gli elettori di Isfahan, città tradizionale e conservatrice, abbiamo invece consegnato al Parlamento ben cinque deputati riformisti, due dei quali donne.
Rouhani, un successo dietro l’altro
Altro aspetto di cui tener presente è il gioco di potere, soprattutto economico, che si svolge fuori dal Parlamento: il presidente Rouhani risulta vittorioso sui conservatori grazie ai successi riportati tanto con la firma dell’accordo sul nucleare quanto con il nuovo assetto del Parlamento, ma ciò non significa che i poteri forti siano intenzionati a lasciargli campo libero.
Anzi, proprio pochi giorni fa, nientemeno che la Guida Suprema, l’ayatollah Khamenei, augurando buon anno nuovo alla popolazione (iniziato il 21 marzo scorso), ha ribadito come gli Stati Uniti stiano a suo giudizio vanificando l’accordo sul nucleare mantenendo in vita molte delle pastoie economiche messe in atto dalla pratica delle sanzioni.
Ancora economia della resistenza
Khamenei ha quindi chiamato i suoi ad attuare una “economia della resistenza”. Ovvero, un’economia basata ancora una volta sull’isolamento dell’Iran dal resto del mondo, Cina esclusa, visto l’enorme giro di affari che la Repubblica islamica ha tessuto con Pechino e che non diminuirà neppure dopo la firma del trattato sul nucleare, ma che è invece destinato ad aumentare fino a raggiungere parecchie centinaia di miliardi di dollari.
Fra l’atteggiamento delle potenze mondiali e le lotte di potere intestine giocherà un ruolo cruciale la società civile iraniana, che si è dimostrata poco incline a ricorrere a mezzi cruenti per affermare la propria volontà: la storia dell’Iran del 1900 è disseminata di guerre esterne e interne per le quali gli iraniani hanno già pagato un prezzo altissimo.
Piuttosto, gli iraniani confermano la loro grande duttilità nei confronti di ogni tipo di avversità e il loro pragmatismo, anche nell’adottare leader che certo non rispecchiano appieno la loro volontà, ma che sembrano poter garantire loro accettabili condizioni di vita materiali, culturali e sociali.
Anna Vanzan, iranista e islamologa, Ph.D. in Near Eastern Studies presso la New York University. Insegna Cultura araba alla Statale di Milano.
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