mercoledì 3 giugno 2015

Irak: il fallimento di una politica

Guerra al Califfato
L’esercito inesistente di un Iraq in disfacimento
Roberto Iannuzzi
26/05/2015
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Che la sconfitta del sedicente ‘stato islamico’ sia sempre più lontana appare ormai evidente. Se all’inizio di aprile la liberazione di Tikrit aveva suscitato speranze, la recente caduta di Ramadi, in Iraq, e quella di Palmira, in Siria, lasciano pochi dubbi sull’amara realtà.

Al di là delle conquiste delle milizie dell’autoproclamatosi califfo, ancora più allarmante è l’ennesima disfatta delle forze armate irachene, nuovamente ritiratesi in maniera precipitosa di fronte alle tattiche “non convenzionali” adottate dagli jihadisti che hanno distrutto interi isolati di Ramadi.

Male armate, non pagate da mesi, scarsamente coordinate con il comando centrale di Baghdad e con i raid aerei statunitensi, le truppe irachene si sono dimostrate ancora una volta inconsistenti.

Le radici di un problema antico
Le origini di tale debolezza risalgono alla fatale decisione statunitense, dopo l’invasione del 2003, di smantellare l’esercito di Saddam Hussein e ricostruire da zero le forze armate del paese.

Gli Stati Uniti hanno investito almeno 25 miliardi di dollari in quest’impresa fino alla fine del 2011, data del loro ritiro dall’Iraq. Questi soldi vennero spesi in addestramento, strutture logistiche, costruzione di nuove basi militari, fornitura di armamenti.

Tuttavia, la ridefinizione dello stato iracheno su basi settarie e l’esigenza dell’allora premier (e comandante in capo dell’esercito) Nuri al-Maliki di proteggersi da eventuali tentativi di golpe posero i germi dell’attuale fallimento.

Gli ufficiali sunniti vennero estromessi, quelli sciiti più competenti furono emarginati a vantaggio di esponenti leali a Maliki. L’esercito divenne una struttura clientelare e corrotta, percepita come un corpo estraneo dalle province sunnite del paese.

Nel giugno 2014, ben quattro divisioni si sono sciolte come neve al sole di fronte all’avanzata di poche migliaia di miliziani dello ‘stato islamico’. Anche grazie all’acquiescenza delle tribù sunnite, si sono impadroniti di Mosul - città di circa due milioni di abitanti - quasi senza colpo ferire.

Se tanti soldati sciiti nelle file dell’esercito non avevano interesse a morire per difendere terre sunnite, quelli sunniti preferirono non combattere per evitare possibili rappresaglie nei confronti delle loro famiglie.Del resto, molti di loro si erano arruolati semplicemente per percepire uno stipendio.

Mosul è sempre più lontana
Ancora oggi si stima che vi siano circa 23 mila ‘soldati fantasma’ a libro paga del governo nella sola provincia di Al-Anbar, un dato significativo dei livelli di corruzione nelle istituzioni irachene.

Il nuovo premier Haider al-Abadi ha avviato provvedimenti per smantellare questo sistema clientelare. Nel frattempo, però, la guerra contro il Califfo e l’inconsistenza dell’esercito hanno costretto il premier a fare crescente affidamento sulle milizie sciite, molte delle quali dipendono, più o meno direttamente, dall’Iran.

Secondo recenti stime di Washington, le forze armate irachene (in passato uno degli eserciti più numerosi al mondo) contano da un minimo di quattro a un massimo di sette divisioni in piena efficienza, per un totale di non più di 50 mila soldati.

Lo scorso febbraio, responsabili militari statunitensi avevano valutato che sarebbe stata necessaria una forza di 20-25 mila uomini solo per riprendere Mosul. Praticamente però non esistono divisioni a maggioranza sunnita nel paese e non è pensabile che forze sciite liberino la città.

L’offensiva su Mosul, inizialmente prevista in primavera, era già stata rinviata all’autunno. Ora la caduta di Ramadi e la necessità di dare la precedenza alla riconquista di questa città a ridosso di Baghdad rendono ancora più remota una simile offensiva.

Disimpegno statunitense
A partire dallo scorso agosto, l’amministrazione Obama ha puntato su un coinvolgimento bellico limitato, incentrato su raid aerei e sull’invio di consulenti militari non direttamente impegnati sui fronti del conflitto.

Questa scelta è in accordo con una strategia generale di progressivo disimpegno statunitense dal Medio Oriente, all’insegna del “leading from behind”. L’iniziativa militare sul terreno viene pertanto lasciata ad attori locali - i peshmerga curdi, l’esercito iracheno e le milizie sciite.

La Casa Bianca sembra aver anche rinunciato a spingere per una riconciliazione nazionale. L’assenza di progressi in questo senso, insieme allo stallo militare, non fanno altro che inasprire le diffidenze esistenti fra le tribù sunnite e il governo.

Il disegno di legge per la creazione di una Guardia Nazionale che permetterebbe ai sunniti di difendere in autonomia i propri territori è tuttora bloccato in parlamento.

La caduta di Ramadi sta poi aggravando una spaccatura all’interno della stessa comunità sunnita, fra coloro che rifiutano l’intervento delle milizie sciite sul proprio territorio e quanti invece lo invocano.

Il disimpegno americano ha anche l’effetto di rendere il premier al-Abadi sempre più ostaggio delle milizie sciite e dell’Iran. L’intervento iraniano è però destinato a esacerbare le tensioni settarie, poiché fomenta le paure dei sunniti. Tali timori determinano a loro volta un aumento del sostegno nei confronti dello “stato islamico”, visto come baluardo contro l’avanzata sciita e iraniana.

Se non sarà spezzato questo circolo vizioso, l’Iraq sprofonderà sempre più nel caos. In ballo non c’è solo il persistere della minaccia rappresentata dal Califfo, ma il rischio sempre più concreto del disfacimento dello stato iracheno.

Roberto Iannuzzi è ricercatore presso l’Unimed (Unione delle Università del Mediterraneo). È autore del libro “Geopolitica del collasso. Iran, Siria e Medio Oriente nel contesto della crisi globale”.
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