martedì 5 maggio 2015

Kuwait: la democrazia in regresso

onarchie del Golfo
Il Kuwait e la stretta autoritaria
Eleonora Ardemagni
02/05/2015
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In Kuwait e nelle altre monarchie del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Ccg) è in atto una stretta autoritaria, che colpisce in primo luogo la libertà d’espressione.

Le rivolte arabe del 2011, la tensione geopolitica con l’Iran e l’intervento militare della coalizione sunnita in Yemen stanno provocando una nuova ondata di repressione, mirata a ridurre e/o silenziare le voci dissenzienti.

Arresti di attivisti e blogger, ritiro della nazionalità per gli oppositori politici, applicazione del Patto di Sicurezza del Ccg (il cui testo non è mai stato reso pubblico): il pendolo politico dei regni del Golfo, in perenne oscillazione fra autoritarismo e democratizzazione, sta dunque muovendosi decisamente in direzione del primo.

Come da tradizione, l’obiettivo è neutralizzare, contemporaneamente, sia le minacce interne sia quelle esterne. Perché intorno all’oasi di stabilità della sponda arabica del Golfo si moltiplicano le insidie alla sicurezza.

Tensione sociale in Kuwait
Musallam al-Barrak, figura di spicco dell’opposizione kuwaitiana, è stato condannato a cinque anni di carcere (ridotti a due in appello) con l’accusa di aver insultato l’Emiro, chiedendo di limitarne i poteri.

Fin dalla sua fondazione, il Kuwait cerca un equilibrio - che spesso si trasforma in impasse decisionale - fra il Governo d’espressione reale e il Parlamento.

Il leader tribale, ora libero su cauzione in attesa della sentenza di ultimo grado, è stato fin qui capace di mobilitare la piazza. Lo scorso marzo, centinaia di persone hanno sfilato verso l’Assemblea nazionale in solidarietà con al-Barrak; una protesta conclusasi con arresti, lanci di pietre verso la polizia e lacrimogeni e manganellate contro i manifestanti.

Solo nel 2014, più di una trentina di oppositori politici kuwaitiani, tra cui il magnate delle telecomunicazioni Ahmed Jaberal-Shammar, sono stati privati della cittadinanza.

Il ritiro della nazionalità sta divenendo una pratica anti-dissenso diffusa non solo in Kuwait, ma anche in Bahrein e Oman. A Muscat, il Sultano ha promulgato nel 2014, tramite decreto, una nuova legge sulla nazionalità che ne sancisce la revoca per coloro che “con principi o dottrine possono danneggiare l’interesse dell’Oman”.

Contro i bombardamenti in Yemen
Sette dei dieci parlamentari sciiti del Kuwait hanno criticato la partecipazione del paese alla coalizione a guida saudita che sta bombardando le milizie sciite in Yemen; secondo loro, ciò viola la costituzione kuwaitiana, che autorizza solo operazioni militari difensive.

L’avvocato ed ex parlamentare Khaled al-Shatti e lo scrittore Salah al-Fadhli, entrambi sciiti del Kuwait, sono stati arrestati (poi liberati su cauzione) per aver espresso, attraverso i social media, il loro dissenso nei confronti della missione ‘Tempesta decisiva’: i capi d’accusa vanno da “offesa all’Emiro e all’Arabia Saudita” alla “demoralizzazione delle truppe”.

In Bahrein (70% di sciiti), i manifestanti anti-intervento militare hanno mostrato dei poster con il volto di Abdel Malek al-Huthi, il leader del movimento minoritario degli sciiti yemeniti.

Fra Qatif e Awamiya, il cuore della contestazione sciita nella regione orientale dell’Arabia Saudita, vi sono state proteste contro i bombardamenti di Sana’a: arresti, case bruciate, almeno un agente e un immigrato asiatico morti.

Il controverso Patto di sicurezza
La stretta anti-oppositori su base transnazionale viene facilitata dalle norme introdotte dal Patto di Sicurezza del Ccg: un documento mai reso pubblico, fortemente voluto da Riad, presentato per inasprire la lotta alla criminalità organizzata nelle monarchie del Golfo e dunque potenziare lo sviluppo economico.

Dopo una difficile discussione parlamentare, il Kuwait è stato l’ultimo paese a ratificare il controverso Patto, già fonte della discordia nel 2013 fra Arabia Saudita e Qatar, accusato di violarne il testo sostenendo la Fratellanza Musulmana a livello regionale.

In realtà, il Patto sta primariamente servendo per perseguire, con modalità cross-nazionali, gli oppositori politici, limitando così le possibilità di azione per le organizzazioni della società civile. Dal gennaio 2015, sono almeno tre gli attivisti kuwaitiani detenuti, ma su richiesta delle autorità saudite.

Come nota l’antropologa saudita Madawi al-Rasheed, l’ondata di arresti in Kuwait tocca, al di là dell’affiliazione ideologica e confessionale, membri di confederazioni tribali beduine presenti in territorio sia kuwaitiano sia saudita; è il caso degli al-Mutairi (di cui fa parte al-Barrak), già ispiratori di Umma, il movimento transnazionale salafita attivo nella Penisola.

In Kuwait, gli sciiti (il 30% della popolazione totale) che contestano i bombardamenti in Yemen sono ben integrati nel tessuto politico-economico del regno, a differenza di Bahrein e Arabia Saudita.

Dunque, la repressione del dissenso colpisce sia gli arabi sciiti sia gli arabi sunniti dell’area Ccg e non è riconducibile a una matrice confessionale. Tuttavia, data la retorica profondamente settaria che Riad ha alimentato nel quadrante, il rischio è che in alcuni contesti (Arabia Saudita, Bahrein), specie dopo il conflitto in Yemen, repressione autoritaria e stigmatizzazione confessionale si saldino.

Eleonora Ardemagni, analista di relazioni internazionali del Medio Oriente, collaboratrice di Aspenia, Ispi, Limes.

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