Di Giuseppe Cozzi
L’Iran
risulta essere uno dei principali attori dell’area mediorientale, sia sul piano
economico che militare. Erede della cultura persiana (vanta un tasso di
alfabetizzazione pari al 87%) è collocato al centro del “Grande Medio Oriente”,
un’iniziativa statunitense promossa dall’Amministrazione di George W. Bush
all’inizio del 2004 per ridisegnare la cartina geografica dell’area.
Inoltre,
la Repubblica Islamica dell’Iran è il punto di riferimento politico della fazione
sciita, il filone minoritario del mondo musulmano i cui membri vivono lungo
tutta la costa del Golfo Persico, cuore petrolifero mondiale, in Iraq, in
Afghanistan e in altre zone del mondo. Questa prerogativa gli ha attirato
l’odio secolare dell’Arabia Saudita, cuore del mondo sunnita e soprattutto
della galassia estremista wahabita.
Per
quanto afferisce al lato economico-commerciale, l’Iran risulta essere il quarto
Paese al mondo per riserve di petrolio e il secondo per quelle di gas, ma non
può sfruttare appieno a causa del lungo isolamento internazionale (Teheran è
costretta ad offrire il proprio greggio ad un prezzo scontato di circa 30
dollari al barile), ed è soprattutto in grado di bloccare lo stretto di Hormuz,
collo di bottiglia della più importante rotta petrolifera mondiale[1].
Sul piano
strategico-militare, invece, nel ranking mondiale delle forze
militari, l’Iran è quattordicesimo, posizionandosi come una potenza regionale
capace di contrastare l’influenza statunitense in Medio Oriente. Nel 2020,
il personale militare attivo del Paese ammonta a ben 523.000 unità, con un
numero di riservisti che raggiunge la cifra di 350.000, per un totale di 873.000
uomini. (6) L’Iran ha sviluppato nel corso degli anni un discreto arsenale di
missili balistici, i quali costituiscono la spina dorsale della strategia di
deterrenza di Teheran. Il corredo missilistico iraniano vanta diversi sistemi a
corto e medio raggio (Short-Range Ballistic Missile – SRBM e Medium-Range
Ballistic Missile – MRBM), consentendo alla Repubblica Islamica di colpire
obiettivi all’interno di un raggio di 2.000 km[2].
Nella
percezione della leadership iraniana, la principale minaccia è rappresentata
dagli Stati Uniti, considerati il paese in grado di mettere in pericolo la
sopravvivenza della Repubblica Islamica e di danneggiare gli interessi
nazionali iraniani. L’evoluzione recente della politica americana nei confronti
dell’Iran, con la decisione di Donald Trump di ritirarsi dall’accordo sul
nucleare nonostante la piena adempienza iraniana allo stesso, ha ulteriormente
rafforzato la percezione da parte della leadership iraniana degli Usa come
attore inaffidabile e dedito esclusivamente al perseguimento dei propri
interessi.
In
particolare, la presenza militare statunitense nella regione è percepita come
una minaccia permanente, così come il sostegno offerto da Washington ai propri
alleati del Golfo è percepito come un sostegno indiretto al rovesciamento della
Repubblica Islamica. Da qui derivano i frequenti appelli iraniani rivolti ai
paesi del Golfo affinché si costruisca un dialogo sulla sicurezza regionale che
sia esclusiva pertinenza dei paesi della regione e che escluda dunque gli Stati
Uniti.
Consapevole
della superiorità tecnologica e in mezzi degli Stati Uniti, Teheran ha saputo
elaborare una strategia militare focalizzata sulle tattiche di guerra
asimmetrica. Gli obiettivi che la Repubblica Islamica intende perseguire con
tale approccio sono principalmente due:
La difesa del regime e del Paese dalle minacce,
sia esterne, che interne;
Emergere nello scenario regionale come potenza
dominante.
In quest’ottica, le forze convenzionali
della Repubblica Islamica hanno lo scopo di scoraggiare un’invasione nemica su
larga scala e di rendere il costo umano ed economico di una guerra
convenzionale intollerabile. D’altro canto, Teheran persegue i propri
obiettivi oltre confine appoggiandosi a diverse milizie sciite e attori
non-statali nella regione, ingaggiando i propri avversari tramite operazioni di
guerra per procura e destabilizzando i Paesi alleati di Washington.
Tramite tale forma di guerra ibrida, la
Repubblica Islamica mantiene il costo politico delle proprie azioni offensive
all’estero molto basso, in quanto l’impossibilità di attribuire la
responsabilità dei diversi attacchi direttamente a Teheran tutela il Paese da
un’eventuale risposta diretta dei propri avversari.
L’Iran, inoltre, negli ultimi anni ha
notevolmente ampliato l’uso dei droni. Se da una parte tali droni vengono
utilizzati per monitorare le minacce interne, come i gruppi di resistenza curda
che si oppongono al regime, dall’altra essi sono stati impiegati nel Golfo e
nel Mare Arabico al fine di contribuire alla compilazione di una sempre più
chiara Maritime Situational Awareness
(MSA) dimostrando alla controparte statunitense e ai Paesi della regione di
potersi affermare come principale attore del Medio Oriente.
Sul piano interno invece, le difficili
condizioni economiche e infrastrutturali, provocate sia dalle sanzioni internazionali
sia dall’incompetenza e cattiva gestione da parte delle autorità iraniane,
continuano a essere la causa scatenante di diffuse e trasversali proteste in
tutto il paese. In un contesto globale di altissima inflazione, i dati iraniani
sono particolarmente negativi, con alcuni settori, tra cui quello alimentare,
che hanno raggiunto il 90% su base annua con ricadute sensibili sui consumi da
parte della popolazione[3].
Allo stesso tempo, il caldo estivo ha riportato alla luce un problema ormai
tragicamente radicato: la scarsità di acqua. Sia i cambiamenti climatici sia le
pessime condizioni delle infrastrutture idriche e la cronica cattiva gestione
da parte delle autorità provinciali hanno portato a situazioni di grave
scarsità di acqua in diverse province[4].
Sebbene durante l’estate la portata delle
proteste non abbia raggiunto i livelli di capillarità e forza del 2019-20, è
evidente che la situazione socioeconomica rappresenta la principale minaccia
per la stabilità della Repubblica Islamica. Non è dunque improbabile che, a
fronte di un ulteriore peggioramento dei dati macroeconomici, nel breve e medio
termine potrebbero emergere nuove, significative ondate di proteste popolari
con la conseguente repressione da parte del regime.
Non ultima e meno importante è la protesta
scoppiata lo scorso 16 settembre a seguito della morte della ventiduenne Mahsa
Amini, arrestata a Teheran dalla Gasht-e
Ershad dalla polizia della Repubblica islamica, con l’accusa di non aver indossato
il velo correttamente. Tale episodio, ha scatenato una nuova ondata di scontri
tra la popolazione civile e le forza di polizia locale, rapidamente diffusesi
in tutto il paese. Le manifestazioni, pregne di una simbologia legata
all’emancipazione femminile (ma più in generale alla volontà di superare alcune
imposizioni religiose come l’obbligatorietà di indossare il velo nei luoghi
pubblici) si sono rapidamente caratterizzate per il coinvolgimento attivo sia di
varie associazioni studentesche che della classe media[5]. I
cruenti scontri hanno causato la morte di centinaia di manifestanti, alcuni dei
quali addirittura arrestati in attesa di giudizio da parte delle autorità
competenti.
Negli ultimi mesi, i manifestanti hanno
ricevuto il sostegno di diverse figure pubbliche iraniane, tra cui il popolare
calciatore Sardar Azmoun e il regista due volte premio Oscar Asghar Farhadi[6] ma
non ultimo anche la protesta della nazionale di calcio iraniana durante la Fifa
World Cup Qatar (FWCQ) nei confronti delle autorità politiche dell’Iran.
La situazione è precipitata ulteriormente alla
fine dello scorso anno, quando decine di persone, di cui diversi minorenni,
sono stati processati e condannati a morte per “inimicizia contro Dio”. L’8
dicembre 2022 infatti, le autorità hanno messo a morte il manifestante
Mohsen Shekari, dopo averlo condannato meno di tre mesi dopo il suo arresto. Il
12 dicembre 2022 le autorità hanno messo a morte pubblicamente un
altro giovane manifestante, Majidreza Rahanvard, a Mashahd, provincia di
Khorasan-e Razavi, dopo averlo condannato e messo a morte meno di due settimane
dopo una sessione del tribunale il 29 novembre 2022.
Il 7 gennaio 2023 sono state eseguite
le condanne a morte di Mohammad Mehdi Karami e Seyed Mohammad
Hosseini. L’8 gennaio, Mohammad Boroughani e Mohammad Ghobadlou sono
stati trasferiti nel braccio della morte in attesa di imminente esecuzione.
Nonostante la composizione sociale e l’impulso
legato a istanze di rivendicazione dei diritti civili e individuali abbiano
reso l’attuale ondata di proteste sostanzialmente diversa, per esempio, da
quella di stampo prettamente economico del 2019, è evidente la coesistenza di
diverse sacche di malcontento all’interno della società iraniana. Sacche che,
almeno per ora, sembrano rimanere scollegate, non riuscendo a creare una
sintesi in grado di superare la repressione violenta messa in atto dal regime[7].
Infine, appare evidente come le dinamiche sopra
descritte, sia dal punto di vista politico- militare che interno, unitamente
alla volontà di Teheran di perseguire la ricerca e lo sviluppo di ordigni
nucleari nonostante le restrizioni poste dagli accordi internazionali, possano
caratterizzare una preoccupante escalation
nell’area e destabilizzare l’equilibrio regionale nel prossimo futuro.
[1] Iran: la crisi economia e politica si
aggrava, (2022), in www.google.com
[2] 2023 Iran Military Strenght, in
www.globalfirepower.com
[3] Skyrocketing inflation pushes Iranians away from
basic food items, expert says, RFE/RL’s Radio Farda, 12 agosto 2022.
[4] “Water cuts in Iran spark more protests as crisis grows”,
RFE/RL’s Radio Farda, 24 agosto 2022.
[5] CARGNELUTTI F., Le proteste anti-patriarcali scuotono le
fondamenta della Repubblica Islamica in Iran. Intervista a Parola Rivetti, Global Project, (2022)
[6] Iran Oscar-winning director urges “solidarity” with
protesters, France 25, 25 settembre (2022)
[7] Iran: decine di persone rischiano
l’esecuzione in relazione alle proposte, in www.amnesty.it
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