Di GIuseppe Cozzi.
Il Gulf
Cooperation Council (GCC), anche noto come Consiglio di Cooperazione del
Golfo, è un’organizzazione regionale che riunisce i Paesi di Arabia Saudita,
Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Oman, Qatar e Kuwait sulla base interessi
economici, sistemi politici simili e valori condivisi. Le radici di tale organizzazione
affondano negli anni 70’, all’indomani della rivoluzione iraniana, la quale che
sancì il rovesciamento del regime dello Shah e la nascita della Repubblica
Islamica dell’Iran, percepita come principale rivale ed elemento di instabilità
regionale.
Sebbene la questione relativa alla sicurezza
non fosse menzionata nel Trattato istitutivo del GCC firmato nel maggio del
1981, il conflitto Iraq-Iran indusse i Paesi a creare nel 1984 un corpo
militare congiunto che, ad oggi, conta all’incirca 40mila soldati divisi in due
brigate, il Peninsula Shield Force. Nonostante tale visione di “difesa
comune”, il Peninsula Shield Force intervenne in Kuwait durante l’invasione
irachena del 1990 ma non fu in grado di difendere, con le proprie forze, il
Kuwait. Inoltre, nel 2012 fu effettuato il tentativo di rafforzare la
cooperazione nel campo della difesa, fortemente appoggiato dai sauditi, che
però fu osteggiato da Oman ed Emirati Arabi Uniti.
Il settore in cui il GCC ha registrato il
maggior numero di successi è quello economico-finanziario. Nel 2001 infatti i
sei paesi del Golfo stipularono il GCC Economic Agreement, un
accordo articolato in diversi punti, tra i più importanti[1]:
l’unione doganale;
le relazioni economiche internazionali con
altri Stati e altre organizzazioni regionali/economiche;
il mercato comune;
l’unione monetaria.
I primi due progetti vennero implementati. Per
quanto attiene all’unione doganale, annunciata il 1° gennaio 2003 e perfezionata
nel 2015, questa consentì l’armonizzazione delle procedure doganali in tutti i
paesi membri e l’istituzione di una tariffa doganale uniforme sui prodotti
provenienti dall’estero. Anche gli scambi commerciali tra i membri del GCC e
altri Paesi e organizzazioni registrarono un sostanzioso miglioramento, uno
degli esempi più significativi è il commercio tra GCC e Unione Europea che tra
il 2006 e il 2016 vide un incremento del
53%[2].
In riferimento agli altri progetti sopra
citati, la creazione di un mercato comune fu proposta nel 2008 con la finalità
di facilitare gli scambi intra-GCC ma non ha trovato ancora riscontro nella
realtà, così come l’unificazione dei Paesi membri sotto una moneta unica.
Quest’ultimo ambizioso obiettivo, stabilito inizialmente per il 2010 e
ispiratosi al modello dell’Euro, fu contrastato ancora una volta da Oman ed
Emirati Arabi Uniti, contrari all’istituzione di una banca centrale comune all’Arabia
Saudita.
Nel 2017 si verifico una profonda fase di
rottura quando i Paesi di Arabia Saudita, Bahrein, EAU ed Egitto imposero un
embargo economico e diplomatico sul Qatar che venne accusato di finanziare il
terrorismo e di intrattenere un rapporto troppo amichevole con la Turchia e lo
storico rivale Iran. L’embargo tuttavia non ebbe l’esito atteso: il Qatar
infatti negli ultimi anni ha continuato a perseguire una politica estera non
allineata con il resto dei Paesi del Golfo ed ha addirittura incrementato il
rapporto con Turchia e Iran. In questo quadro Oman e Kuwait hanno agito come
mediatori per porre fine alla crisi.
Un’ulteriore minaccia all’integrità
dell’organizzazione è rappresentata dalla disgregazione del fronte congiunto
contro quello che, fino a pochi anni fa, era considerato un nemico
comune: Israele. La normalizzazione dei rapporti tra lo Stato ebraico e
gli Emirati Arabi Uniti seguiti dal Bahrein, di fatto, ha messo in luce
discrepanze sempre più evidenti. Sebbene di recente l’amministrazione Trump
abbia invitato ripetutamente Qatar e Arabia Saudita a prendere parte agli
Accordi di Abramo (ricordiamo le visite istituzionali dell’allora Segretario di
Stato americano Pompeo) essi sembrano ancora lontani dall’intraprendere
relazioni diplomatiche con Israele. Da una parte Doha ha sostenuto a gran voce
la causa palestinese e ha denunciato, attraverso un’imponente campagna
mediatica, gli accordi e la decisione degli EAU, dall’altra parte Riyadh ha
assunto una posizione più ambigua a causa dei contrasti all’interno della
stessa casa regnante. Se la vecchia guardia, rappresentata dal Re Salman e dal
Ministro degli Esteri Faisal bin Farhan Al Saud, si
dichiara disposta a riconoscere lo Stato di Israele solo nell’ambito
di un accordo permanente che garantisca ai palestinesi uno Stato nei confini
del ’67, la posizione del principe ereditario Muhammad Bin Salman è decisamente
meno ostile. A dimostrarlo una dichiarazione rilasciata
nel 2018 in cui affermò “condividiamo diversi interessi con Israele e se c’è
pace ci saranno molti interessi tra Israele e i Paesi del Consiglio di
Cooperazione del Golfo”[3] e
un presunto incontro con
il Premier Netanyahu tenutosi nella “città del futuro” di Neom alla presenza
del Segretario di Stato Pompeo.
D’altro canto l’Iran si è rivelato abile
nell’approfittare delle debolezze e delle rivalità tra gli Stati arabi della
regione, come ad esempio la diatriba tra Qatar e Arabia Saudita da una parte e
EAU e Bahrein dall’altra. Se per i Paesi GCC l’Iran è il nemico comune, visto
come minaccia diretta alla propria esistenza, per l’Iran gli Stati del Golfo
sono dei nemici di media intensità (se comparati agli Stati Uniti d’America ed
Israele), poiché sono percepiti come strumenti degli USA per minacciare e
intimidire la Repubblica islamica dell’Iran.
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