La sequenza di eccidi all’aeroporto di Istanbul, e poi al ristorante di Dacca, e poi ancora a Baghdad,e i kamikaze manifestatisi negli stessi paesi del Golfo, Kuwait e Arabia Saudita, ci riportano tragicamente al problema del terrorismo che la vicenda Brexit ha per qualche tempo oscurato.
Benché terrorismo e migrazioni di massa non siano affatto estranei alle motivazioni di voto del pubblico britannico, anzi. Abbiamo in ogni caso conferma che il parziale, lento, arretramento dell’Isis dallo scacchiere siriano (e iracheno) non ferma i jihadisti, ma moltiplica in modo esponenziale l’utilizzo del brand Isis: il terrorismo si diffonde in un vasto ‘altrove’con inquietanti cadenze ravvicinate.
Siria e Iraq, cantiere aperto Anche per questo il cantiere Siria (e Iraq) va chiuso al più presto. A che punto siamo, dopo oltre cinque anni di guerra?
Siamo alle dichiarazioni preoccupate di Staffan De Mistura sull’incertezza della ripresa dei negoziati (“non c’è una massa critica”), al persistere delle difficoltà di recapitare aiuti umanitari ai centri assediati da mesi, al continuo esodo di gente intrappolata nei combattimenti, all’inasprirsi di scontri armati nelle aree nevralgiche intorno ad Aleppo e nel Nord-Est lungo la direttrice che punta alla roccaforte dell’Isis, Raqqa, con il corredo di ulteriori vittime.
Siamo alla tracimazione del conflitto oltre confine, in Libano e in Giordania. L’intesa di cessate-il-fuoco faticosamente raggiunta il 27 febbraio non si è mai realizzata se non sporadicamente e in aree molto circoscritte, e le trattative di Ginevra avviate in marzo si sono dissolte in qualche incontro informale con talune formazioni militanti.
Siamo al punto che anche le fonti americane più riservate - dal vertice della Cia John Brennan all’inedita sortita di 51 diplomatici del Dipartimento di Stato - denunciano apertamente l’inefficacia della strategia fin qui praticata da Obama: l’appoggio ‘esterno’ ai ribelli cosiddetti moderati, mediante addestramento e forniture belliche, non basta a contrastare quanti sono disposti a mettere in campo violenze e tattiche di ogni genere, animati dall’ideologia del terrore.
I protagonisti regionali arabi si manifestano con l’offerta di scendere direttamente in campo, da ultimo ventilata dal saudita Mohamed Bin Salman a Washington, che l’ha respinta al mittente. Senza contare che la strategia “Isis first”, sommata al principio “no boots on the ground”, sta di fatto traducendosi in un’ampia latitudine militare accordata alla filiera Assad-Russia-Iran. Ma è altamente improbabile che Obama cambi strategia.
Gioco delle parti tra Usa e Russia Sull’intesa Washington-Mosca in funzione anti-Isis pesa il “non-detto”. Sconta infatti che i raid americani si concentrino al Nord a sostegno dei combattenti curdo-arabi, permettendo agli Stati Uniti di dedicarsi al più familiare e altrettanto problematico terreno iracheno.
E che Mosca dal canto suo, nel fiancheggiare Assad, aderisca al principio “Isis first” cercando di pilotare in tal senso le iniziative militari di Assad che notoriamente considera una vasta gamma di milizie di opposizione come terroriste. Una sorta di divisione dei compiti.
Ma le ambiguità sulla nozione di terrorismo -non a caso riflesse anche nella Ris 2253/2015 del CdS - e cioè se esso comprenda, oltre a Isis e Al-Nushra/Al-Qaida, formazioni islamiste “affiliate” sostenute dai protagonisti del Golfo, quali Arhar al-Sham e Jaish al-Islam, rende difficile la tenuta dell’intesa stessa.
Mosca reclama un piano di rafforzato coordinamento di intelligence che aumenti l’efficacia delle sue iniziative militari. Ciò che ovviamente ne dilaterebbe il margine di manovra. Washington formalmente oppone un diniego, ma di nuovo Kerry parte per Mosca.
Esiste tra l’altro il problema di evitare frizioni militari come quella del 16 giugno alla frontiera di Al-Tanf, incrocio tra Siria, Giordania, Iraq - ove raid russi avrebbero colpito formazioni di ribelli appoggiate dagli americani e, nel replicare a loro difesa, aerei americani avrebbero rischiato una collisione - o peggio, quella del 17 giugno tra le rispettive marine militari confluite nel Mediterraneo orientale.
Russi, iraniani e turchi compagni di merenda? D’altra parte Mosca, dopo dieci mesi di presenza attiva al fianco di Assad, ha fretta e vorrebbe accelerare le operazioni. Sia per i costi esorbitanti del prolungato impegno bellico sia soprattutto per la nutrita partecipazione alle formazioni jihadiste di foreign fighters russi, originari delle aree caucasiche del Daghestan o della Cecenia, e del vicinato centro-asiatico, Kirghistan o Kazakistan.
Meglio interrompere subito la trafila e prevenirne il rientro. Sta quindi consolidando il raccordo con Teheran, e giunge anche a lanciare un improbabile appello per un “fronte internazionale anti-terrorismo” che includa il mondo arabo,dopo che gli attacchi a Gedda e ai luoghi sacri di Medina e Qatife a Gedda hanno rivelato tutta la vulnerabilità dell’Islam ufficiale.
Gli stessi umori della Turchia, al prezzo peraltro di gravi stragi jihadiste nel proprio territorio, stanno virando verso l’uscita dalla strategia pro-islamista perseguita per anni da Erdogan in controtendenza rispetto agli alleati Nato e della coalizione a guida americana.
Non che venga meno il progetto originario di respingere i combattenti curdo-siriani lontano dalle aree di insediamento a ridosso delle proprie frontiere, tagliandone i paventati collegamenti con il Pkk domestico.
Ma gli ultimi movimenti di Ankara indicano una ricerca di uscita dal vicolo cieco, mediante una ricucitura con la Russia, che superi l’episodio dell’abbattimento del jet Sukhoi-24 in novembre, nonché con Israele, dopo la lunga interruzione seguita all’incidente di Mavi Marmara nel 2010, e con lo stesso Egitto di Al-Sisi dopo il gelo intervenuto a seguito della deposizione di Al-Morsi nel 2013.
E intanto Assad… Un intenso lavorìo, dunque, tra i principali attori esterni della crisi. Al centro del problema, il nodo cruciale relativo al ruolo di Assad nella ‘transizione politica’ e la sua definitiva uscita di scena con il deferimento al Tribunale penale internazionale preteso dai ribelli. E al contempo quello di compagini jihadiste tuttora sostenute da referenti del Golfo.
La sconfitta dell’Isis e in particolare la cacciata dell’Isis da Raqqa (e da Mosul in Iraq) non è all’orizzonte. Le misure adottate al vertice Nato di Varsavia per rafforzare il fronte sud puntano soprattutto al contrasto dei traffici di migranti in mare: basterà?
Nel frattempo, le trattative sono appese a un filo, la catastrofe umanitaria si aggrava determinando ulteriori esodi, e l’Isis allarga il suo campo d’azione disseminando stragi nel mondo.
Laura Mirachian, Ambasciatore, già Rappresentante Permanente presso l’Onu, Ginevra.
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