giovedì 28 luglio 2016

Turchia: strascichi del colpo di stato

Turchia
Erdoğan alla prova dei diritti umani
Emanuele Sommario
26/07/2016
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Il 22 luglio 2016, il Segretario generale del Consiglio d’Europa Thorbjørn Jagland ha ricevuto una comunicazione ufficiale dal governo turco, nella quale le autorità di Ankara annunciano la volontà di derogare alla Convenzione Europea dei diritti umani. Il provvedimento giunge in risposta al tentativo di colpo di Stato messo in atto da una parte delle forze armate turche il 15 luglio 2016 per rovesciare il presidente Racep Tayyp Erdoğan. La possibilità di deroga è prevista dall’articolo 15 della Convenzione. Questo dà facoltà agli Stati parte di sospendere temporaneamente l’applicazione di alcuni diritti “in caso di guerra o in caso di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione”, e di prendere le misure necessarie per far fronte all’emergenza.

La stagione delle purghe
Tuttavia, la reazione del governo al fallito putsch sta assumendo forme e proporzioni preoccupanti. Le autorità hanno ordinato l’arresto di oltre 13.000 cittadini turchi – fra soldati, poliziotti e magistrati - sospettati di essere coinvolti nel golpe. Negli ultimi giorni sono state chiuse centinaia di scuole e università, e sciolti quasi 1400 fra sindacati, fondazioni e associazioni. Inoltre, più di 50.000 dipendenti pubblici sono stati licenziati o sospesi dal servizio.

Le misure emergenziali adottate includono la possibilità di estendere i fermi di polizia per 30 giorni, senza dover procedere ad alcuna incriminazione. Sono inoltre numerose le accuse di gravi maltrattamenti cui sarebbero stati sottoposti gli accusati, ad alcuni dei quali sarebbe stata negata la possibilità di interloquire in privato col proprio difensore, o di informare i parenti del proprio arresto. Particolarmente preoccupante è poi l’intenzione manifestata dal governo turco di voler reintrodurre la pena di morte.

I limiti imposti dal diritto internazionale dei diritti umani
Nonostante le difficili circostanze in cui versa il paese, le autorità turche incontrano dei limiti ben precisi nell’individuare il tipo di provvedimenti necessari a ristabilire l’ordine. Detti limiti derivano dai numerosi trattati sul rispetto dei diritti umani che il governo turco ha sottoscritto nel corso degli anni, fra cui spicca proprio la Convenzione europea sui diritti umani.

Va innanzitutto precisato che l’articolo 15 non dà carta bianca rispetto alle misure emergenziali che è possibile introdurre. Queste debbono essere necessarie e proporzionali, ossia realmente utili a porre un freno all’emergenza e commisurate alla minaccia cui si deve far fronte. La sospensione di diritti il cui esercizio non ha alcuna connessione con il mantenimento dell’ordine pubblico non sarebbe dunque ammissibile.

Lo stesso articolo contiene inoltre una lista di diritti che non possono mai essere soggetti a sospensione, neanche in situazione di emergenza pubblica. Vi rientrano il diritto a non essere privati arbitrariamente della vita, il divieto di tortura e di pene o trattamenti inumani o degradanti, e il principio nulla poena sine lege, in virtù del quale nessuno può essere condannato a una pena più grave di quella applicabile al momento del compimento del reato. Qualora realmente verificatisi, molti dei trattamenti cui sarebbero stati sottoposti gli individui incarcerati risulterebbero in violazione della Convenzione.

Pena di morte
Ci si chiede se agli autori del tentato golpe possa essere comminata la pena di morte. Va innanzitutto ricordato che nel 2004 la pena capitale è stata abolita dall’ordinamento turco (anche in tempo di guerra), nel quadro delle riforme legislative sollecitate dall’Unione Europea per permettere l’ingresso del paese nell’organizzazione. Inoltre, nel 2006 la Turchia ha ratificato il Protocollo n. 13 alla Convenzione Europea, che vieta l’imposizione e l’applicazione della pena di morte in qualsiasi circostanza, e che rende tale divieto inderogabile.

La Turchia potrebbe ovviamente denunciare il Protocollo n. 13 o l’intera Convenzione, sciogliendosi dagli obblighi che impongono. Tuttavia, l’art. 58 della Convenzione stabilisce che lo Stato che intenda denunciarla debba dare un preavviso di sei mesi, e che comunque andrebbero considerati “coperti” dalla Convenzione tutti gli atti avvenuti prima che la notifica di denuncia abbia effetto.

Si aggiunga a questo che l’imposizione della pena capitale costituirebbe una flagrante violazione del principio inderogabile nulla poena sine lege. Inoltre, la Corte Europea dei diritti umani ha chiarito in una recente sentenza che l’applicazione della pena di morte in Europa è contraria alle norme internazionali sui diritti umani perché incompatibile col divieto di tortura. Tale divieto è vincolante a prescindere dalla partecipazione ai trattati sui diritti umani. In buona sostanza, ci sono ragioni sufficienti per credere che una condanna a morte dei golpisti rappresenterebbe una violazione del diritto internazionale da parte della Turchia.

Numerosi paesi hanno espresso apprensione per le misure repressive adottate, suscitando tuttavia reazioni irritate da parte delle autorità turche. Lo stesso Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, pur dando atto alle autorità e alla popolazione turca di aver sventato il golpe, ha ricordato come la risposta del paese debba essere in linea con gli standard in materia di diritti umani, che vanno rispettati anche nel punire gli autori del tentato putsch, garantendo loro l’incolumità fisica e il rispetto dei principi dell’equo processo. D’altro canto, non ha di certo giovato alla causa di chi invoca moderazione il comportamento del governo francese, che negli scorsi mesi ha ritenuto di dover derogare alla Convenzione europea per far fronte alla minaccia terrorista, circostanza che le autorità di Ankara non hanno mancato di sottolineare.

Emanuele Sommario è ricercatore in diritto internazionale presso la Scuola Superiore Sant'Anna.

giovedì 21 luglio 2016

Siria: non si vede la luce in fondo al tunnel

Guerra al Califfato
Siria senza pace
Laura Mirachian
17/07/2016
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La sequenza di eccidi all’aeroporto di Istanbul, e poi al ristorante di Dacca, e poi ancora a Baghdad,e i kamikaze manifestatisi negli stessi paesi del Golfo, Kuwait e Arabia Saudita, ci riportano tragicamente al problema del terrorismo che la vicenda Brexit ha per qualche tempo oscurato.

Benché terrorismo e migrazioni di massa non siano affatto estranei alle motivazioni di voto del pubblico britannico, anzi. Abbiamo in ogni caso conferma che il parziale, lento, arretramento dell’Isis dallo scacchiere siriano (e iracheno) non ferma i jihadisti, ma moltiplica in modo esponenziale l’utilizzo del brand Isis: il terrorismo si diffonde in un vasto ‘altrove’con inquietanti cadenze ravvicinate.

Siria e Iraq, cantiere aperto
Anche per questo il cantiere Siria (e Iraq) va chiuso al più presto. A che punto siamo, dopo oltre cinque anni di guerra?

Siamo alle dichiarazioni preoccupate di Staffan De Mistura sull’incertezza della ripresa dei negoziati (“non c’è una massa critica”), al persistere delle difficoltà di recapitare aiuti umanitari ai centri assediati da mesi, al continuo esodo di gente intrappolata nei combattimenti, all’inasprirsi di scontri armati nelle aree nevralgiche intorno ad Aleppo e nel Nord-Est lungo la direttrice che punta alla roccaforte dell’Isis, Raqqa, con il corredo di ulteriori vittime.

Siamo alla tracimazione del conflitto oltre confine, in Libano e in Giordania. L’intesa di cessate-il-fuoco faticosamente raggiunta il 27 febbraio non si è mai realizzata se non sporadicamente e in aree molto circoscritte, e le trattative di Ginevra avviate in marzo si sono dissolte in qualche incontro informale con talune formazioni militanti.

Siamo al punto che anche le fonti americane più riservate - dal vertice della Cia John Brennan all’inedita sortita di 51 diplomatici del Dipartimento di Stato - denunciano apertamente l’inefficacia della strategia fin qui praticata da Obama: l’appoggio ‘esterno’ ai ribelli cosiddetti moderati, mediante addestramento e forniture belliche, non basta a contrastare quanti sono disposti a mettere in campo violenze e tattiche di ogni genere, animati dall’ideologia del terrore.

I protagonisti regionali arabi si manifestano con l’offerta di scendere direttamente in campo, da ultimo ventilata dal saudita Mohamed Bin Salman a Washington, che l’ha respinta al mittente. Senza contare che la strategia “Isis first”, sommata al principio “no boots on the ground”, sta di fatto traducendosi in un’ampia latitudine militare accordata alla filiera Assad-Russia-Iran. Ma è altamente improbabile che Obama cambi strategia.

Gioco delle parti tra Usa e Russia
Sull’intesa Washington-Mosca in funzione anti-Isis pesa il “non-detto”. Sconta infatti che i raid americani si concentrino al Nord a sostegno dei combattenti curdo-arabi, permettendo agli Stati Uniti di dedicarsi al più familiare e altrettanto problematico terreno iracheno.

E che Mosca dal canto suo, nel fiancheggiare Assad, aderisca al principio “Isis first” cercando di pilotare in tal senso le iniziative militari di Assad che notoriamente considera una vasta gamma di milizie di opposizione come terroriste. Una sorta di divisione dei compiti.

Ma le ambiguità sulla nozione di terrorismo -non a caso riflesse anche nella Ris 2253/2015 del CdS - e cioè se esso comprenda, oltre a Isis e Al-Nushra/Al-Qaida, formazioni islamiste “affiliate” sostenute dai protagonisti del Golfo, quali Arhar al-Sham e Jaish al-Islam, rende difficile la tenuta dell’intesa stessa.

Mosca reclama un piano di rafforzato coordinamento di intelligence che aumenti l’efficacia delle sue iniziative militari. Ciò che ovviamente ne dilaterebbe il margine di manovra. Washington formalmente oppone un diniego, ma di nuovo Kerry parte per Mosca.

Esiste tra l’altro il problema di evitare frizioni militari come quella del 16 giugno alla frontiera di Al-Tanf, incrocio tra Siria, Giordania, Iraq - ove raid russi avrebbero colpito formazioni di ribelli appoggiate dagli americani e, nel replicare a loro difesa, aerei americani avrebbero rischiato una collisione - o peggio, quella del 17 giugno tra le rispettive marine militari confluite nel Mediterraneo orientale.

Russi, iraniani e turchi compagni di merenda?
D’altra parte Mosca, dopo dieci mesi di presenza attiva al fianco di Assad, ha fretta e vorrebbe accelerare le operazioni. Sia per i costi esorbitanti del prolungato impegno bellico sia soprattutto per la nutrita partecipazione alle formazioni jihadiste di foreign fighters russi, originari delle aree caucasiche del Daghestan o della Cecenia, e del vicinato centro-asiatico, Kirghistan o Kazakistan.

Meglio interrompere subito la trafila e prevenirne il rientro. Sta quindi consolidando il raccordo con Teheran, e giunge anche a lanciare un improbabile appello per un “fronte internazionale anti-terrorismo” che includa il mondo arabo,dopo che gli attacchi a Gedda e ai luoghi sacri di Medina e Qatife a Gedda hanno rivelato tutta la vulnerabilità dell’Islam ufficiale.

Gli stessi umori della Turchia, al prezzo peraltro di gravi stragi jihadiste nel proprio territorio, stanno virando verso l’uscita dalla strategia pro-islamista perseguita per anni da Erdogan in controtendenza rispetto agli alleati Nato e della coalizione a guida americana.

Non che venga meno il progetto originario di respingere i combattenti curdo-siriani lontano dalle aree di insediamento a ridosso delle proprie frontiere, tagliandone i paventati collegamenti con il Pkk domestico.

Ma gli ultimi movimenti di Ankara indicano una ricerca di uscita dal vicolo cieco, mediante una ricucitura con la Russia, che superi l’episodio dell’abbattimento del jet Sukhoi-24 in novembre, nonché con Israele, dopo la lunga interruzione seguita all’incidente di Mavi Marmara nel 2010, e con lo stesso Egitto di Al-Sisi dopo il gelo intervenuto a seguito della deposizione di Al-Morsi nel 2013.

E intanto Assad…
Un intenso lavorìo, dunque, tra i principali attori esterni della crisi. Al centro del problema, il nodo cruciale relativo al ruolo di Assad nella ‘transizione politica’ e la sua definitiva uscita di scena con il deferimento al Tribunale penale internazionale preteso dai ribelli. E al contempo quello di compagini jihadiste tuttora sostenute da referenti del Golfo.

La sconfitta dell’Isis e in particolare la cacciata dell’Isis da Raqqa (e da Mosul in Iraq) non è all’orizzonte. Le misure adottate al vertice Nato di Varsavia per rafforzare il fronte sud puntano soprattutto al contrasto dei traffici di migranti in mare: basterà?

Nel frattempo, le trattative sono appese a un filo, la catastrofe umanitaria si aggrava determinando ulteriori esodi, e l’Isis allarga il suo campo d’azione disseminando stragi nel mondo.

Laura Mirachian, Ambasciatore, già Rappresentante Permanente presso l’Onu, Ginevra.

sabato 9 luglio 2016

La Guerra del Golfo. Il Rapporto Chilcot

Iraq 
Lo strabismo sul Califfo che semplifica la realtà
Lorenzo Kamel
07/07/2016
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Un’inchiesta durata sette anni e riassunta in dodici volumi. Il Rapporto Chilcot, focalizzato sul coinvolgimento di Londra nella Guerra in Iraq (2003-2009), conferma, con nuovi dettagli, che i piani su cui si fondava l’attacco erano inadeguati, che le basi giuridiche attraverso cui si cercò di avallarlo erano “lontane dall’essere soddisfacenti” e che la principale giustificazione all’intervento (il possesso di armi di distruzione di massa da parte del regime di Baghdad) si basava su dati fallaci.

Le azioni di Washington e Londra, prosegue il rapporto, hanno minato l’autorità del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e gettato l’Iraq nel caos: un esito che, secondo le conclusioni dell’inchiesta, era largamente prevedibile.

All’indomani della pubblicazione del rapporto i maggiori media britannici, su tutti Bbc eGuardian, hanno prontamente denunciato le scelte dell’ex premier Tony Blair, omettendo tuttavia di ricordare l’ampio appoggio mediatico che essi stessi hanno fornito nel 2003 a supporto dell’intervento militare.

Cause versus sintomi
A tredici anni di distanza dallo scoppio della Guerra in Iraq, il Paese è alle prese con un’ennesima fase di transizione. L’autoproclamatosi “stato islamico” riveste in essa un ruolo mediaticamente centrale, che in alcuni casi non aiuta a fare chiarezza su divergenti interessi e un complesso vissuto locale.

Il “califfato” continua a distribuire copie dei testi del fondatore del wahhabismo Ibn ʿAbd al-Wahhab nelle aree dell’Iraq e della Siria sotto il suo controllo e si rifà a molte delle sue tesi più influenti, incluso l’obbligo per tutti i fedeli di giurare fedeltà a un singolo leader musulmano, preferibilmente un califfo. Da un punto di vista ideologico lo “stato islamico” ha dunque radici riconducibili in larga parte al wahhabismo e al retaggio storico saudita.

Da un punto di vista più pratico, tuttavia, l’ascesa dello “stato islamico”, finanziato in maniera consistente con fondi provenienti dal Golfo, è in larga parte il sintomo (non la causa) di un malessere covato a partire dal 2003 e intensificatosi negli anni a seguire.

Nel contesto iracheno, per larga parte del XX secolo l’identità confessionale ha ricoperto un ruolo marginale o secondario. Fanar Haddad, autore di Sectarianism in Iraq: Antagonistic Visions of Unity, ha notato che prima del 2003 un senso di appartenenza a una identità sunnita “semplicemente non esisteva”.

Dopo il 2003, le “politiche identitarie sono diventate la norma piuttosto che un’anomalia, in quanto sono parte di un sistema. A confermarlo è il fatto che la prima istituzione creata nel 2003 a seguito dell’occupazione militare è stata l’Iraq Governing Council - esplicitamente basato su criteri confessionali”.

Da allora, la componente sunnita locale ha subìto un crescente processo di marginalizzazione e continue vessazioni che hanno avuto nella pulizia etnica del 2006-2007 - quando molti sunniti furono obbligati a lasciare Baghdad in favore della provincia di Anbar - uno degli episodi più significativi.

Hezbollah sunnita
Su un piano ideologico, l’ascesa dello “stato islamico” ha rappresentato in questo senso una significativa valvola di sfogo per una percentuale rilevante di sunniti. Si tratta, mutatis mutandis, di un “processo storico” che per alcuni aspetti ricorda l’ascesa di Hezbollah nel Libano degli anni Ottanta, quando la componente sciita locale decise di reagire a una radicata e crescente situazione di marginalizzazione e sotto rappresentanza.

Qualsiasi strategia finalizzata a porre fine allo “stato islamico” e ai crimini contro l’umanità di cui continua a macchiarsi dovrà dunque essere basato sulla consapevolezza che esso rappresenta il sintomo di un problema strutturale.

Una soluzione sostenibile dovrà quindi passare per un sistema inclusivo che incoraggi alleanze politiche che travalichino la divisioni etniche e religiose. In caso contrario, anche qualora scomparisse lo “stato islamico” rimarrebbero intatte le condizioni che ne hanno reso possibile l’ascesa.

A ciò si aggiunga che ulteriori ingerenze esterne - incluse le armi fornite da Mosca e Teheran, nonché le bombe e i droni, soprattutto statunitensi, inglesi e tedeschi, che continuano a provocare la morte di un ampio numero di civili in Iraq e nel resto della regione - non possono che rendere ancor più arduo l’obiettivo dell’inclusività e rappresentano un aiuto significativo a gruppi come lo “stato islamico” nella loro opera di reclutamento di giovani rancorosi.

Oltre l'isolamento dorato
Nel contesto iracheno l’attenzione dei media internazionali e, di riflesso, dell’opinione pubblica è rivolta in larga parte alle azioni e alle strategie dello “stato islamico”, che da più parti viene percepito come il solo gruppo responsabile della conquista delle città sunnite poste a nord della capitale Baghdad.

Ciò tuttavia rischia di semplificare un quadro locale più complesso, relegando numerosi altri gruppi jihadisti di primo piano - inclusi Jaysh Rijal al-Tariqa al-Naqshbandia, al-Majlis al-Askari al-Amm li-Thuwwar al-Iraq, Ansar al-Islam - al ruolo di comparse.

A ciò si aggiunga che rivolgere una quasi esclusiva attenzione allo “stato islamico” (o alla recente “liberazione di Fallujah”, scandita dai massacri compiuti dalle milizie a maggioranza sciita di Al-Hashd Al-Sha'abi) rischia di porre in secondo piano problemi non meno strutturali come la corruzione e il cattivo funzionamento istituzionale che continua a destabilizzare l’Iraq.

A fine aprile migliaia di attivisti (soprattutto sciiti) hanno abbattuto parte dei muri che recingono la Green zone, posta nel centro di Baghdad. Essa, costruita come presidio temporale dalle forze di occupazione statunitensi nel 2003 per proteggersi da incursioni esterne, è rimasta intatta anche dopo il loro ritiro.

L’élite irachena continua a investire ingenti quantità di denaro pubblico all’interno della Green zone per garantire a se stessa e alle proprie famiglie elevati standard di vita (macchine, ville, sistemi di sicurezza). Un Iraq pacificato dovrà necessariamente passare (anche) attraverso la fine di questo “isolamento dorato”, obbligando le élite al potere a rispondere delle proprie azioni e a condividerne gli oneri con la popolazione locale.

Lorenzo Kamel ha pubblicato "Arab Spring and Peripheries" (Routledge 2016) e "Imperial Perceptions of Palestine: British Influence and Power in Late Ottoman Times" (selezionato nella cinquina finalista del Palestine Book Award 2016).