mercoledì 29 giugno 2016

Giordania: elezioni il 20 settembre 2016

Medio Oriente
Giordania, crisi della Fratellanza in stato di sicurezza
Eleonora Ardemagni, Paolo Maggiolini
28/06/2016
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In Giordania, le elezioni parlamentari si terranno il 20 settembre: sarà un test di valutazione sia per la monarchia che per i Fratelli Musulmani. Re Abdullah misurerà l’impatto popolare delle decisioni e delle riforme attuate per arginare le multiformi proteste del 2010-2013: riuscirà a riportare i giordani alle urne?

Gli Ikhwan di Amman si confronteranno con gli effetti della crescente frammentazione politica: le tre Fratellanze hanno molti nodi da sciogliere, come il rapporto di subalternità del partito (Islamic Action Front, Iaf) nei confronti dell’associazione caritatevole e la dicotomia fra East-Bankers (transgiordani) e palestinesi che riflette l’irrisolta questione dell’identità giordana. Tra afflusso di profughi siriani, crisi finanziaria e pressione islamista, il baricentro dello stato di sicurezza giordano è in continuo riposizionamento, tra pulsioni interne e minacce regionali.

Amman e gli altri Fratelli
La vicenda dei Fratelli Musulmani in Giordania è sempre stata una storia a parte, che non rientra né nel paradigma egiziano-saudita (esclusione-repressione), né in quello integrato del Marocco (dove il Pjd guida dal 2011 un governo di coalizione). Dal 1993, anno di nascita dello Iaf, i Fratelli Musulmani giordani hanno diviso, su richiesta della monarchia, le attività di predicazione ed educazione (dawa, tarbiyya, di competenza dell’associazione), da quelle della politica (siyyasa, delegate al partito).

Nel Congresso appena conclusosi, anche i Fratelli tunisini di Ennahda hanno sancito questa suddivisione: seppur nella specificità dei due contesti, il partito tunisino si propone dunque di percorrere la medesima strada, ma dovrà evitare di ricadere nelle contraddizioni che in Giordania hanno ingabbiato la dialettica interna allo Iaf, favorendo il boicottaggio elettorale.

Le tre Fratellanze
Oggi, la tendenza più vistosa nella Fratellanza giordana è la frammentazione politica, nel rispetto però delle ˊlinee rosseˋ del sistema monarchico, con il quale gli Ikhwan hanno un rapporto assai dialettico dalla metà degli anni Ottanta. Almeno tre soggetti si contendono il ruolo di legittimo rappresentante della Fratellanza Musulmana: il movimento originale fondato nel 1942 (ora privo di licenza), la Società dei Fratelli Musulmani (registrata nel 2015 e non affiliata alla casa madre) e l’iniziativa riformatrice Zamzam.

In questo quadro, il Consiglio dei Saggi, formato da fuoriusciti dello Iaf, ha cercato invano di ricucire lo strappo, anche generazionale, con la Società. Nel 2012, i promotori transgiordani (poi espulsi) della cosiddetta Zamzam initiative elaborarono una proposta riformatrice alternativa, a sostegno di una concezione civica e partecipativa dello stato (dawlamadaniyya), mettendo al centro sensibilità e temi ˊpan-giordaniˋ. Questa riflessione su Islam e pluralismo, pronta a cooperare con soggetti altri (sinistra, liberali), è poi sfumata al crescere delle proteste, ma si riaffaccia ora alla vigilia del voto.

I gruppi che guardano alla Fratellanza potrebbero presentarsi divisi alle elezioni, allontanando però il tradizionale spettro del boicottaggio. Zamzam e la neo-registrata Società (più dialoganti, “nazionali” e a prevalenza transgiordana) si sono subito dichiarati a favore della partecipazione; l’Islamic Action Front, il partito afferente al nucleo originario degli Ikhwan (più intransigente, “internazionalista” e a maggioranza palestinese) ha successivamente deciso, a schiacciante maggioranza interna, di presentarsi alle urne.

La monarchia auspica che il ˊmarchioˋ dei Fratelli Musulmani partecipi alle elezioni: una strategia che è insieme di legittimazione interna e internazionale. Complice il conflitto siriano, Amman ha alzato la guardia sul fenomeno jihadista: dopo gli arresti del 2014 a Maan, una cellula del sedicente Stato Islamico è stata smantellata a Irbid in marzo, portando all’arresto di nove persone.

Sicurezza prima di riforme
Secondo gli emendamenti costituzionali appena approvati dalla Camera bassa, re Abdullah sceglierà i membri della Corte Costituzionale e il capo della forza di polizia militare (per il controllo del dissenso interno) senza esame parlamentare: di fatto era già così, ma ora vengono meno i contrappesi formali. Inoltre, non è più prevista la contro-firma del primo ministro o dei ministri sui decreti reali.

Queste misure sono in apparente contrasto con quelle del 2011, quando la monarchia optò per timide aperture in senso costituzionale, conferendo maggiori poteri al Parlamento. L’intrecciarsi costante di minacce esterne e interne scandisce le regole e i tempi dello stato di sicurezza giordano: la sicurezza nazionale sembra ora prevalere sul processo di riforma politica. Tuttavia, la legge elettorale del 2015 introduce elementi di novità, come la ripartizione proporzionale a livello provinciale che potrebbe favorire l’aggregazione in liste, pur nel mantenimento del voto per appartenenza tribale.

Eleonora Ardemagni è analista di relazioni internazionali del Medio Oriente. Gulf Analyst, Nato Defense College Foundation, collaboratrice di Aspenia e Ispi. Autrice di “The Importance of Being Local. Framing AQAP’s intra-jihadi Hegemony in Yemen”, Italian Team for Security, Terroristic Issues and Managing Emergencies (ITSTIME), UniversitàCattolica, Milano.
Paolo Maggiolini è Research Fellow all’interno del Programma Mediterraneo e Medio Oriente presso l’Istituto Italiano per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi) e collabora con le attività del corso di Storia e Istituzioni dell’Asia presso l’Università Cattolica di Milano. Si occupa del rapporto tra religione e politica all’interno dell’area mediorientale e mediterranea, con particolare attenzione ai contesti di Israele, G

martedì 28 giugno 2016

Nuovi orizzonti nelle alleanze in Medio Oriente

Medio Oriente
Se l’Arabia Saudita si avvicina a Israele
Rodolfo Bastianelli
13/06/2016
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L’intesa sul nucleare iraniano ha spinto indirettamente Israele ed Arabia Saudita ad avvicinarsi vista la comune ostilità verso il regime iraniano e le sue ambizioni atomiche. Da tempo si era comunque assistito a un “allineamento” informale tra i due Stati.

Stando infatti a quanto riportato dal quotidiano israeliano “Haaretz”, già sei anni fa il direttore del “Mossad” si sarebbe incontrato in Arabia Saudita con i vertici dell’intelligence e della difesa sauditi per pianificare una possibile opzione militare per fermare il programma nucleare di Teheran, mentre secondo quanto riportato dalla rivista statunitense “The Atlantic”, tra il 2014 ed il 2015 rappresentanti dei due Paesi avrebbero avuto dei colloqui “riservati” sempre allo scopo di valutare le eventuali contromisure da adottare per contrastare i progetti atomici iraniani.

Inoltre, lo scorso anno l’ex-Ambasciatore israeliano a Washington Dore Gold e l’ex-Generale saudita Anwar Bin Eshki hanno poi partecipato ad una conferenza organizzata dal “Council on Foreign Relations” nel corso della quale entrambi hanno sottolineato i rischi che presenta per la regione la politica seguita dal regime iraniano, tanto che lo stesso Gold ha auspicato che le differenze tuttora esistenti tra Riad e Gerusalemme possano essere superate negli anni a venire.

I contatti sono andati intensificandosi a inizio di gennaio dopo la rottura delle relazioni diplomatiche tra Arabia Saudita e Iran innescata dall’esecuzione del predicatore sciita Nimr al-Nimr da parte di Riad.

Non a caso pochi giorni dopo la rottura tra Teheran e Riad, Dore Gold, divenuto direttore generale del Ministero degli Esteri israeliano, parlando ad una conferenza dell’“Institute of National Securities Studies” dichiarava come “Israele fosse in contatto con ogni Stato arabo”. Una dichiarazione alla quale faceva seguito quella del Ministro degli Esteri sudanese Ibrahim Ghandour per il quale un accordo di pace con Israele poteva ora anche essere preso in considerazione.

Tiran e Sanafir
La conferma della “cooperazione strategica” in corso tra Riad e Gerusalemme è arrivata ad aprile, quando l’Egitto ha restituito all’Arabia Saudita la sovranità su Tiran e Sanafir, due isole disabitate situate nel Golfo di Aqaba. Trasferite nel 1950 sotto il controllo egiziano - anche se il governo saudita non ne aveva mai ceduto la sovranità - per proteggerle maggiormente in caso di un eventuale attacco israeliano, le isole sono state occupate da Israele nel 1967 e poi restituite all’Egitto nel 1982 secondo le clausole degli accordi di Camp David.

E la conferma di come tra Gerusalemme e Riyad sia in corso una sorta di “cooperazione strategica” per fronteggiare il regime di Teheran, è venuto lo scorso aprile dall’accordo con cui l’Egitto restituiva all’Arabia Saudita la sovranità su Tiran e Sanafir, due isole disabitate situate nel Golfo di Aqaba, un accordo che ha però suscitato forti proteste in Egitto in quanto considerato come un segno di debolezza da parte del Paese.

Ora l’intesa raggiunta tra le quattro parti interessate - Egitto, Arabia Saudita, Israele e Stati Uniti - se da un lato permette al regime di al-Sisi di ottenere 16 miliardi di dollari d’investimenti da Riyad, dall’altro segna appunto un ulteriore segnale di distensione tra Israele ed Arabia Saudita, visto che il governo saudita ha dato formale assicurazione scritta che intende preservare il diritto per le navi israeliane di attraversare lo Stretto di Tiran che costituisce la sola via d’accesso alla città di Eilat, anche se, va sottolineato come in base all’articolo V dello stesso Trattato di Pace, lo Stretto di Tiran ed il Golfo di Aqaba devono comunque considerarsi acque internazionali aperte senza limitazioni alla navigazione.

Svolta per la politica estera israeliana
Sul piano geopolitico, il riavvicinamento tra Gerusalemme e Riad rappresenterebbe una svolta storica per la politica estera israeliana che fin dalla nascita dello Stato ebraico aveva stretto relazioni strategiche con l’Iran e considerato al contrario con ostilità il regno saudita vista anche la sua forte impronta religiosa wahabita.

Ora però il quadro è radicalmente cambiato. Lo sviluppo del programma nucleare da parte del regime iraniano e l’appoggio che da tempo Teheran forniva al movimento sciita libanese degli “Hezbollah”, pur se appoggiato anche da Riyad nel corso del conflitto del 2006, hanno spinto Gerusalemme a riorientare la sua politica verso l’Arabia Saudita che, al pari di Israele, guarda con preoccupazione alla politica iraniana e con sfavore alle aperture attuate da Obama nei confronti di Teheran.

Non è quindi un caso che in Israele, pur permanendo in alcuni commentatori lo scetticismo verso questa apertura nei confronti del regime saudita, l’atteggiamento dell’opinione pubblica stia cambiando, come dimostra un sondaggio realizzato lo scorso anno nel quale il 53% degli intervistati ritiene come sia oggi l’Iran il maggior pericolo per la sicurezza nazionale contro appena il 18% che invece considera l’Arabia Saudita una potenziale minaccia per lo Stato ebraico.

Netanyahu riapre al piano di pace saudita
Ed un’ulteriore segnale di apertura nelle relazioni tra i due Paesi è venuto dalla disponibilità espressa dal premier israeliano Benjamin Netanyahu a discutere il piano di pace saudita che riprende la proposta avanzata da Riad nel 2002 in base alla quale gli Stati arabi erano pronti a riconoscere Israele se questo si ritirava nei confini esistenti prima del 1967.

Allora criticato da Israele, il piano avanzato oggi, secondo Netanyahu, contiene invece elementi positivi capaci così riaprire il dialogo israelo-palestinese. Tuttavia, pur accogliendolo positivamente Netanyahu, che poco prima aveva nominato alla Difesa l’esponente ultraconservatore Avigdor Lieberman, ha comunque affermato come il piano debba essere “revisionato” per tenere conto dei cambiamenti avvenuti nella regione in questi ultimi quattorici anni, una proposta che però è stata però respinta dal Ministro degli Esteri saudita Adel al-Jubeir.

Nonostante i segnali positivi, gli analisti ritengono però che il percorso verso una normalizzazione completa dei rapporti rimanga comunque ancora lungo e numerose questioni dovranno essere risolte prima che si giunga ad un formale riconoscimento diplomatico tra i due Paesi.

Rodolfo Bastianelli, giornalista e professore a contratto di storia delle relazioni internazionali, collabora con “L’Occidentale”, “Informazioni della Difesa”, “Rivista Marittima”, “Limes” ed “Affari Esteri”. Ha curato la politica estera per “Ideazione” e la rivista “Charta Minuta” della fondazione “Fare Futuro”.

giovedì 23 giugno 2016

Stato Islamico: occorre l'ultimo sforzo

Medio Oriente
Il Califfato barcolla, ma non molla
Roberto Iannuzzi
15/06/2016
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Proprio nel giugno di due anni fa, l’autoproclamatosi “stato islamico” catturava la città di Mosul e si impadroniva di altri centri abitati iracheni con un’impressionante avanzata, giungendo quasi alle porte di Baghdad. Oggi la situazione è ben diversa. Una campagna su più fronti, in Iraq e Siria, sta gradualmente sottraendo territorio al sedicente califfato.

Daesh mostra segni di logoramento, potendo contare su minori introiti anche a causa della parziale distruzione del suo business petrolifero. A rendere ancora lontana la vittoria finale sul califfato non è la forza di quest’ultimo, ma la debolezza e la frammentazione dei suoi avversari.

Falluja, simbolo del conflitto iracheno
Lo scorso 23 maggio, il governo iracheno annunciava un’offensiva contro Falluja, roccaforte di Daesh a meno di 70 km da Baghdad. L’azione, fortemente voluta dalle milizie sciite e dall’Iran oltre che dal governo, ha scontentato parzialmente Washington che avrebbe preferito dare la precedenza alla liberazione di Mosul, capitale irachena del califfato.

Sebbene la distruzione dello stato islamico sia obiettivo condiviso da iraniani e americani, la competizione per l’influenza in Iraq ha la meglio sulla cooperazione nella lotta contro di esso. Falluja è una spina nel fianco per il governo iracheno, che la considera uno dei principali centri da cui Daesh semina il terrore, inviando attentatori suicidi e autobomba nella vicina capitale.

La città riveste un ruolo simbolico. Essa fu una roccaforte dell’opposizione baathista e dell’insorgenza sunnita durante l’occupazione Usa. Dal 2012 fu sede di continue proteste contro il governo. Nel 2014 fu la prima città a cadere nelle mani di Daesh. Diversi leader tribali locali hanno giurato fedeltà all’organizzazione.

Washington teme perciò che la liberazione di Falluja possa portare a vendette a sfondo settario, che a loro volta complicherebbero la campagna di Mosul. La valenza simbolica della città travalica le contrapposizioni locali, acquisendo una dimensione regionale.

Dall’Arabia Saudita stanno arrivando tonnellate di aiuti a Falluja e alla provincia di Anbar che la ospita. Gli aiuti, pur avendo finalità principalmente umanitarie, sono dettati dalla solidarietà intra-sunnita e dalla rivalità con l’Iran. E per ammissione delle stesse autorità saudite, fra essi si infiltrano anche finanziamenti agli uomini del califfato.

Nel frattempo l’offensiva contro Mosul, annunciata con enfasi lo scorso marzo, non registra progressi. E i sanguinosi scontri verificatisi ad aprile fra curdi e sciiti turcomanni nella cittadina di Tuz Khurmatu, 90 km a sud di Kirkuk, sono solo un assaggio dei conflitti etnico-settari che la conquista della capitale del califfato potrebbe far esplodere.

La “corsa verso Raqqa”
Quasi contemporaneamente al lancio dell’offensiva contro Falluja, le Forze democratiche siriane (Fds) annunciavano l’inizio della campagna contro Raqqa, epicentro di Daesh in Siria. Sostenute da Washington, le Fds hanno una crescente componente araba al loro interno, ma rimangono forze a maggioranza curda. È questa la ragione principale per cui l’azione verso Raqqa si è ben presto trasformata in un’offensiva diretta a ovest, verso Manbij, con l’obiettivo di isolare Daesh dal confine turco-siriano.

I curdi sognano da tempo di unire l’enclave occidentale di Afrin al resto del territorio curdo, situato a est dell’Eufrate. Questo progetto è fortemente osteggiato dalla Turchia. Per il momento, Ankara sembra aver accettato a malincuore l’offensiva sponsorizzata dagli americani, solo perché i gruppi ribelli appoggiati dai turchi stavano a loro volta soccombendo al califfato. Questo non significa però che la Turchia abbia dato il via libera alle ambizioni curde.

Per contro, un’offensiva dei curdi verso Raqqa non solo non interessa a questi ultimi, ma è osteggiata da molte tribù arabe della regione, ostili alla presenza curda. Sono Daesh e il regime di Damasco a contendersi la lealtà di queste tribù. Le truppe del regime hanno anch’esse intrapreso un’avanzata verso Raqqa, da sudovest, nella speranza di contendere alle forze filo-americane il controllo della Siria orientale quando il califfato sarà sconfitto.

Daesh sopravvive grazie ai suoi nemici
Così come in Iraq vi è una concorrenza tra forze rivali nella lotta contro Daesh, la “corsa verso Raqqa” in Siria è una gara fra attori in competizione tra loro. Sia le Fds che le forze leali a Damasco sono dispiegate su un fronte troppo esteso e perciò non sono in grado di minacciare seriamente Raqqa senza esporsi ad attacchi nelle retrovie.

In Iraq, un’ulteriore complicazione è data dalla debolezza del governo iracheno, che rischia di sprofondare sotto il peso delle tensioni intra-sciite. La recente occupazione del parlamento da parte di una folla di sostenitori del leader Muqtada al-Sadr ha rappresentato un chiaro campanello d’allarme a tale riguardo.

Nei prossimi mesi il califfato continuerà probabilmente a perdere terreno, e a ricorrere sempre più ad azioni strettamente terroristiche come attentati e attacchi suicidi, rinunciando alle precedenti azioni militari su vasta scala.

Ciononostante, né la caduta di Raqqa né tantomeno quella di Mosul paiono imminenti. Ed anche quando ciò accadrà, grazie alle rivalità locali e regionali a cui si è accennato, Daesh potrà riemergere di volta in volta come formazione terroristica o dando vita a piccoli emirati temporanei, comunque mantenendo in vita la sua ideologia.

Roberto Iannuzzi è ricercatore presso l’Unimed (Unione delle Università del Mediterraneo). È autore del libro “Geopolitica del collasso. Iran, Siria e Medio Oriente nel contesto della crisi globale (Twitter: @riannuzziGPC).

martedì 7 giugno 2016

Israele: i costi della non pace

Conflitto israelo-palestinese
Due popoli, una pace, malgrado tutto
Giorgio Gomel
06/06/2016
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Il conflitto israelo-palestinese è quasi “relegato” in secondo ordine dalla disgregazione del Medio Oriente - a un secolo esatto dagli accordi Sykes-Picot con cui Inghilterra e Francia stabilirono i confini interstatuali della regione - dal terrorismo islamista, dal cataclisma politico e umanitario che investe quell’area del globo.

Tanto più meritorio quindi l’impegno della Francia nel riunire, la settimana scorsa, in un summit la comunità delle nazioni per muovere le parti a una soluzione negoziata basata sul principio di “due stati per due popoli”.

La storia lunga e accidentata dei rapporti fra Israele e i palestinesi dimostra che le due parti in lotta sono incapaci di giungere a un accordo senza l’impegno fattivo di un mediatore. La retorica cara agli israeliani e soprattutto all’attuale governo che la “pressione” esterna significa imporre una soluzione e che solo negoziati bilaterali possono produrre frutti è logicamente e storicamente falsa.

Per l’Europa in particolare una soluzione di pace è un obiettivo che combina interessi e valori. Interessi che vanno dalla stabilità nella regione alla battaglia contro l’estremismo islamista e alla violenza terroristica che colpisce le sue città. Valori che sono la tutela dei diritti umani, della democrazia e dell’autodeterminazione dei popoli.

I costi della non pace
Nell’attuale frangente è importante decifrare quanto accadrà in Israele, con il potere straripante della destra nazionalista e i contrasti acuti fra ministri dell’attuale governo - Avigdor Lieberman, in particolare, da pochi giorni alla Difesa - e i vertici dell’esercito circa l’etica delle armi.

Quanto accade in Israele, data l’asimmetria di potere effettivo sul campo rispetto ai palestinesi, è difatti determinante per il corso degli eventi. I palestinesi hanno compiuto errori immani, dal terrorismo suicida contro i civili israeliani all’inutile guerriglia mossa dalla striscia di Gaza, ma sono oggi divisi fra Cisgiordania e Gaza, Autorità nazionale palestinese e Hamas, osteggiati dal mondo arabo, largamente impotenti.

Essi non sono cittadini dello stato in cui vivono, Cisgiordania o la striscia di Gaza, dove non esercitano il diritto di voto da dieci anni, né votano per le istituzioni dello stato - Israele - che di fatto controlla la loro esistenza quotidiana.

Ma ritenere che il conflitto fra Israele e Palestina sia meno rilevante e che lo status quopossa essere sostenuto indefinitamente è un errore . La convinzione prevalente in Israele che il conflitto possa essere contenuto in forme a “bassa intensità” senza essere risolto è illusoria così come l’idea che nel disordine regionale convenga a Israele non assumere un’iniziativa di pace.

I costi umani e materiali della “non pace” sono infatti enormi, come attestano gli orrori della guerra di Gaza del 2014 o le aggressioni a colpi di coltello che insanguinano da mesi le strade di Israele e della Cisgiordania e la minaccia crescente di un degrado della democrazia e della stessa convivenza fra arabi ed ebrei in Israele.

Oltre allo stallo politico, vi è una profonda separazione fra le due società, quella ebraico-israeliana e quella arabo-palestinese. Nella psicologia dei palestinesi Israele è l’occupante, l’aggressore; per gli israeliani i palestinesi sono il nemico omicida, ingrato e irriducibile che non merita fiducia né diritti di popolo e stato. Per questo è importante guardare a iniziative innovative che scaturiscono dalla società civile, tentando di scalfire l’immobilismo che domina la sfera politica.

Ecopeace Middle East
Due esempi, fra i tanti. L’uno riguarda il tema ambientale e delle risorse idriche. Ecopeace Middle East è una Ong tripartita israelo-giordano-palestinese, un unicum del genere nel vasto universo delle Ong in cui israeliani e palestinesi cooperano per superare la separazione “disumanizzante”, nonostante l’opposizione del fronte palestinese di “antinormalizzazione” - che rifiuta ogni forma di cooperazione con Israele, fino a quando perdura l’occupazione e il negoziato di pace è bloccato - e da un’attitudine dell’attuale governo israeliano che discrimina le Ong israeliane attive nel campo dei diritti umani e della pace.

Israele, in virtù della tecnologia avanzata in materia di trattamento delle acque di scarico e di impianti di desalinizzazione, ha un surplus di produzione rispetto al consumo con cui potrebbe risolvere il dramma della scarsità di acqua potabile che grava invece sulla Cisgiordania e soprattutto sulla striscia di Gaza , dove la situazione sanitaria è a forte rischio di epidemie.

La questione dell’acqua che dagli accordi di Oslo è uno dei cinque oggetti del negoziato, insieme ai confini, gli insediamenti, i rifugiati, lo status di Gerusalemme, potrebbe essere risolta in modo equo, efficace e benefico per le parti in causa e offrire anche un esempio per la soluzione delle altre questioni contese.

Sostegno regionale a una soluzione di pace
Il secondo viene dalla Israeli Peace Initiative, un’associazione di esponenti dell’accademia, imprenditoria, esercito, intelligence che intende sollecitare quella parte dell’opinione pubblica di centro e pragmatica, ma scettica o rassegnata all’idea di un conflitto irrisolvibile, a mobilitarsi ed agire per giungere a una soluzione pacifica.

Una soluzione che può scaturire soltanto se al negoziato fra le due parti si affianca un accordo regionale che lo sostenga sia sul piano economico, per la riabilitazione dei rifugiati palestinesi da integrarsi in parte in un futuro stato di Palestina e in parte nei paesi arabi, sia su quello strategico per fornire a Israele le necessarie garanzie di sicurezza in una regione ora scossa da acuti sconvolgimenti.

A questo fine Israele dovrebbe accettare di negoziare sulla base dell’offerta di pace avanzata dalla Lega araba nel 2002 e riaffermata in anni recenti, reagire al crescente isolamento diplomatico, e cogliere le opportunità offerte da un oggettivo convergere di interessi con l’Autorità palestinese e gli stati arabi, soprattutto Arabia Saudita, Giordania, Egitto, ed emirati del Golfo, per opporsi all’estremismo islamista da un lato e alla minaccia iraniana dall’altro.

Giorgio Gomel, economista, è membro del Comitato direttivo di Jcall, un’associazione di ebrei europei impegnata nel sostegno ad una soluzione “a due stati” del conflitto israelo-palestinese. Il tema dei rapporti politico-economici fra l'Europa e Israele è stato ampiamente trattato in “Europe and Israel: a complex relationship.