venerdì 20 febbraio 2015

Siria:La nuova offensiva dello stato islamico in Iraq


di
 Guilia  Dal Fiume
(giuliadalfiume@libero.it)

Dopo la riconquista di Kobane in Siria a opera delle milizie curde, l’offensiva dello Stato Islamico si è spostata nell’Iraq settentrionale dove i terroristi hanno attaccato i peshmerga, le forze militari curde irachene, per contendersi la città petroliera di Kirkuk.
I jihadisti pare abbiano approfittato del tempo avverso per lanciare gli attacchi già prima dell’alba. Col passare delle ore la situazione si è resa così grave che le organizzazioni internazionali presenti sul territorio hanno fatto evacuare il proprio personale verso Erbil.
I terroristi si sono serviti di svariati kamikaze che hanno provocato delle vittime, anche se ancora è incerto il numero dei morti sia nelle fila dei curdi che dello stato islamico.
La resistenza curda prosegue incessantemente i combattimenti per proteggere la città di Kirkuk e i numerosi giacimenti petroliferi. Gli attacchi di Is hanno avuto luogo anche in altre città, tra cui Baghdad dove vi sono state delle esplosioni in due mercati che hanno provocato alcune vittime tra i civili, si ipotizza dai 20 ai 44 morti.

Negli ultimi giorni si è affacciato sulla scena della lotta nelle zone Iraq e Siria un nuovo gruppo, quello degli yazidi, una minoranza di origine curda perseguitata, che si sta organizzando e ha già effettuato degli attacchi contro villaggi sunniti. 
31 gennaio 2015
(geografia2013@libero.it)

venerdì 13 febbraio 2015

Uno scacchiere con qualche novità

Medio Oriente 
Nuovi equilibri in Medio Oriente?
Laura Mirachian
04/02/2015
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Per la prima volta in 40 anni un casco blu della forza di interposizione Unifil nel sud del Libano è stato ucciso nel corso di scontri. Chi, il 28 gennaio, ha cominciato a sparare in un’area rimasta congelata per decenni, all’incrocio tra Siria, Libano, Israele, chi si vuol colpire? E perché adesso?

La doverosa inchiesta dell’Onu farà il suo corso. Hezbollah avrebbe agito per ‘ritorsione’. Fin d’ora si può però registrare che nel Golan e dintorni non sono più due i protagonisti che si confrontano, la Siria di Bashar Al Assad ed Israele. Da mesi è entrata in campo la militanza jihadista di Al-Nusra e di seguito l’Iran a fiancheggiare Hezbollah che tradizionalmente presidiano il territorio. Il raid israeliano del 18 gennaio a Quneitra aveva colpito anche un ufficiale dei pasdaran iraniani.

Israele allarmato
Si è aperto così un ennesimo punto di confronto militare che allarma Israele soprattutto perché accompagnato da uno scenario politico particolarmente inquietante per Tel Aviv: l’approssimarsi di un accordo tra Iran e la compagine 5+1 sul nucleare, destinato a favorire una graduale riabilitazione dell’Iran.

E con essa nuovi equilibri nell’area mediorientale dal cui dosaggio potrebbe (teoricamente) sortire una stabilizzazione della medesima. Certo, non aiutano i conclamati propositi di esponenti della dirigenza iraniana di annientamento di Israele.

Per anni, Israele ha mantenuto un approccio relativamente prudente rispetto al ginepraio del travaglio mediorientale. Di fronte a un avanzamento dell’Iran sotto casa, la tentazione di Benjamin Netanyahu, comprovata da notizie di intelligence, è di optare per ciò che considera il male minore: Al-Nusra. Una forza combattente jihadista legata alla costellazione Al-Qaida. Una scelta abnorme e rischiosa, anche perché il potenziale di Al-Nusra è legato alle politiche di altri protagonisti regionali, in primis l’Arabia Saudita.

Iran
La strategia dell’Iran è del resto piuttosto chiara: sostiene da sempre la Siria di Assad e gli Hezbollah in Libano, è al fianco di Al-Abadi in Iraq, e degli Houti in Yemen che il 22 gennaio hanno costretto Mansour Hadi a un arretramento difficile da recuperare, e ora dichiara di voler armare i palestinesi di Cisgiordania come di Gaza: “Iran is on the march in Middle East”, secondo Dennis Ross; “Iran’s emerging empire”, secondo Krauthammer .

Taluni settori dell’intelligence statunitense non fanno mistero della propria insofferenza per le critiche degli ambienti repubblicani alla percepita e paventata linea del presidente Barack Obama sul nucleare e soprattutto per la narrativa di Netanyahu che li alimenta.

Si interrogano se opporsi a un accordo con l’Iran, che pure sta portando a un controllo delle sue potenzialità nucleari, o se insistere su nuove sanzioni che persino il Mossad considera controproducenti, o se infine lasciare semplicemente che il Congresso si faccia strumentalizzare ai fini della campagna elettorale di Netanyahu, possano essere accettati come forme estreme di patriottismo o non siano piuttosto un colpevole boicottaggio degli interessi nazionali Usa .

Gli Stati Uniti, si sottolinea, non hanno alcun motivo valido per entrare nella disputa tutta islamica tra sunniti e sciiti, devono praticare un approccio pragmatico, sostenere il presidente iraniano Rohani moderato contro le istanze estremiste e permettergli di uscire dall’isolamento.

E del resto, si afferma, l’Iran non va contro gli interessi statunitensi, al contrario, quando sostiene forze che lottano contro il sedicente “stato islamico”, Al-Qaida e affiliati, siano esse in Yemen o in Iraq o in Siria ivi incluso nel Golan. Pare dedursi che anche Assad, secondo queste fonti, non è più l’obiettivo primario da abbattere.

Cambio di guardia in Arabia Saudita
Che l’Amministrazione Obama punti, nella travagliata vicenda mediorientale, a ridisegnare l’equilibrio delle influenze bilanciando i due grandi protagonisti, Arabia Saudita e Iran, sembra precisarsi a misura del dilagare degli scenari di conflitto.

La repentina decisione di Obama di lasciare l’India in anticipo per recarsi a Riad ad incontrare la nuova leadership saudita, ivi incluso Mohammed Nayef - secondo nella linea del trono e noto per il suo approccio ‘security-first’- sarebbe stata intesa a ricostruire la forte partnership bilaterale - sanando le falle apertesi con l’11 settembre, con la revisione dei piani di attacco ad Assad, e non ultimo con il fiancheggiamento della prima ora dei Fratelli Musulmani in Egitto. Tale iniziativa serve anche a sensibilizzare la dirigenza saudita sulla lotta al terrorismo e allinearne più decisamente la condotta alle strategie della coalizione anti-IS da ultimo confermate alla Conferenza di Londra.

Parallelamente, Teheran offre la propria collaborazione a Riad per ‘consolidare la sicurezza e la stabilità regionale’. Saprà la nuova dirigenza saudita, ora alle prese con un complesso ricambio ai vertici, raccogliere la sfida? Per il momento, il ministro degli esteri iraniano Mohammad Javad Zarif ha deciso di rinviare la sua missione a Riad, difficile concordare l’agenda dei colloqui.

Laura Mirachian è Ambasciatore, già Rappresentante Permanente presso Nazioni Unite e Organizzazioni Internazionali a Ginevra.
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giovedì 12 febbraio 2015

ISIS: un fenomeno da osservare attentamente

12 febbraio 2015
Lo Jihadismo dei Foreign Fighters
Si tratta di un fenomeno senza precedenti: i cosiddetti foreign fighters (combattenti stranieri) che si sono affiliati allo stato islamico (IS) in Siria e Iraq sarebbero circa ventimila secondo il National Counter Terrorism Center (Nctc) statunitense.
Il direttore, Nicholas Rasmussen, ha osservato che tutti questi combattenti sono in massima parte indottrinati grazie a internet e provengono da oltre novanta paesi, tra cui 3400 da stati occidentali.
Si tratta di un fenomeno senza precedenti visti i numeri coinvolti, nonostante negli ultimi vent’anni i flussi jihadisti verso Afghanistan, Pakistan e Iraq siano stati pressoché costanti.
Nel frattempo il presidente Obama ha dato conferma dell’uccisione della cooperante statunitense Kayla Jean Mueller, uccisa dai suoi carcerieri e non dai bombardamenti giordani degli ultimi giorni, come affermato dallo stato islamico inizialmente.
Fa molto riflettere l’impatto mediatico che i combattenti Is vogliono suscitare nella comunità internazionale. L’ultimo in ordine di tempo: il macabro invio della fotografia del corpo della giovane cooperante uccisa alla famiglia della stessa.
Gulia Dal Fiume

lunedì 9 febbraio 2015

PETROLIO E SANGUE: IL CASO AZERBAIJANO E CECENO A CONFRONTO

di
 Federico Salvati

Il Caucaso è una realtà estremamente multiculturale e tristemente questa multiculturalità coincide con fenomeni di multiconflittualità. Da un punto di vista accademico, però, un dato come questo (la cui tragicità è indescrivibile) può essere convertito in un vantaggio per comprendere meglio la realtà regionale. Il parallelismo degli accadimenti e le loro lampanti comunanze ci permettono, infatti, di scrutare gli eventi in maniera comparatistica.
Guardano il Caso ceceno e il caso azerbaijano in quest'ottica la domanda che sorge spontanea è: Perché  l'Azerbaijan non ha seguito le più triste sorti toccate alla Cecenia e quali sono i fattori che hanno delineato un esito diverso nell'articolazione del conflitto?
La risposta a questa domanda non può e non deve essere univoca ma c'è un fattore salta subito all'occhio analizzando i due conflitti: il diverso ruolo delle risorse petrolifere.
Entrambi i paese hanno una lunga storia di sfruttamento delle risorse fossili. Le prime testimonianze a riguardo, risalgono all'era premoderna ma l'estrazione industriale cominciò solo alla fine del XIX sec. È largamente accettato tra i commentatori che in Azerbaijan le risorse petrolifere in senso stretto non abbiamo giocato un ruolo di punta all'interno dello scenario della guerra civile. Ci fa notare Jill Shakelman che i ricavi più sostanziali per lo stato azerbaijano sono arrivati dopo la fine della guerra e non prima. Baku mancava sostanzialmente delle risorse tecnologiche per lo sfruttamento intensivo dei depositi e proprio questa necessità ha portato alla firma del “contratto del secolo”. Il teatro del Nagoron Karabakh inoltre si è svolo geograficamente lontano dai pozzi dell'Azerbaija rendendo meno  facile l'accesso della risorsa da parte dei combattenti.   Dopo il 91, inoltre, si sono totalmente tagliate le forniture di energetiche all'Armenia, escludendo in senso tattico il fattore dal conflitto.
Negli anni a seguire la politica azerbaijana a riguardo è stata molto più scaltra rispetto a quella Cecena. I proventi provenienti dal commercio petrolifero sono stati usati per comprare consenso e legittimità politica tra popolazione. Lo stesso Ilhan ha guadagnato il rispetto politico solo quando sono cominciati ad arrivare le prime entrate derivanti dalla vendita delle risorse della BTC. Al contrario la popolazione cecena non ha mai goduto in maniera diretta delle rendite derivanti dalle vendite petrolifere che invece hanno favorito l'ascesa di pochi eletti.
Dudayev al momento della proclamazione d'indipendenza del paese era conscio che il petrolio avrebbe potuto fornire larghi orizzonti economici al paese. Yaiha Sayd, però, mette in luce come il leader Ceceno vedeva con troppa automaticità il rapporto tra indipendenza e benessere economico. La presenza di una risorsa economica in uno scenario di guerra quasi mai rappresenta una speranza di sviluppo futuro. Al contrario a seconda della sua accessibilità può dare vita a complicazioni strategiche che aumentano l'intensità e la durata del conflitto aggiungendo un fattore di “avidità” (come viene chiamato dagli esperti del settore) dove invece non era presente. A differenza del caso azero in Cecenia le risorse petrolifere erano alla portata di tutti. Chiunque poteva fare in modo di appropriarsene in maniera veloce e senza troppe ripercussioni. Ribelli e criminali comuni non si sono limitati a succhiare il petrolio che scorreva nei tubi dalle pipeline in territorio ceceno. In breve tempo tempo si passò da queste semplici operazioni, a carattere rischioso e poco lucrativo, alla raffinazione su base domestica.  Contrariamente all'Azerbaijan infatti la Cecenia era dotata di un capitale industriale nel campo energetico più consistente e che meglio si adattava all'attività commerciale del greggio. Il livello spaventoso della violenze e la durata prolungata del suo esercizio all'interno dello scenario, hanno creato uno sfaldamento sociale maggiore rispetto al Karabakh che è sfociato un una spiccata propensione da parte della popolazione all'auito-aiuto ( o come la chiama Murab Al-Shishani alla “self-criminalization”). La Cecenia, inoltre, non ha mai avuto problemi estrattivi. La natura delle risorse di questo paese è sempre stata estremamente superficiale ( molte famiglie potevano accedervi senza uscire neanche dalla propria proprietà). Una volta impadronitisi, attraverso i saccheggi, dei macchinari necessari per la raffinazione, singole famiglie o gruppi di famiglie hanno cominciato a pompare petrolio facendo del suo commercio un business domestico. Tale circostanza va inquadrata in un contesto sociale più ampio. La Cecenia infatti negli anni è diventata un entità economica a se stante rispetto alla madrepatria. Molti esponenti dell'esercito russo e delle fazioni ribelli hanno conseguito fortuna e ricchezza avvantaggiandosi delle dinamiche di guerra. Questi eventi hanno raggiunto il parossismo nella seconda guerra cecena quando pur di continuare i propri affari elementi deviati dell'esercito, ribelli e semplici gangster hanno instaurato delle lucrative e durature collaborazioni tra i vari fronti, tese a conservare lo scenario di disordine e anarchia che permetteva agli interessati di condurre i loro traffici illegali.

Vediamo come fattori geografici, economici e sociali hanno giocato in maniera convergente nel plasmare gli accadimenti di questi due scenari che si guardano allo specchio ritrovando nell'altro possibilità mancate e rischi evitati.

sabato 7 febbraio 2015

LA GOGRAFIA DEL SUD DEL CAUCASO

di Federico Salvati
(federicoslv@gmail.com

Sebbene oggi la geografia sia diventata un elemento poco popolare nelle scienze internazionalistiche questa ancora mantiene un potere analitico potentissimo. Essa ci permette di comprendere la natura profonda degli avvenimenti in qualità di dimensione spaziale in cui essi si svolgono.
Il sud del Caucaso è una regione prevalentemente a carattere montuoso. Le due catene principali ( cioè il grande e il piccolo Caucaso) partono congiunte nei monti Likhi a est vicino il mar nero per poi tuffarsi separatamente nel mar Caspio. Nella parte centro orientale della regione, vicino alle coste caspiche, il divergere delle catene forma una depressione che è soggetta a fenomeni di desertificazione.
Brezinsky definiva il Sud del Caucaso una convergenza competitiva. L'area è sottoposta ad una triplice pressione che proviene dall'Iran, dalla Turchia e dalla Russia. Le spinte contrapposte di questi tre attori hanno influenzato nei secoli passati la vita politica del sud del Caucaso e ancora oggi risultano determinanti per capire questo scenario.

Nell'ottica russa, dal un punto di vista strettamente geopolitico la regione si trova nel centro di quella che Samuel Bernard Choen chiama la “zona di convergenza euroasiatica” e cioè una fascia territoriale che va dai paesi baltici alla Korea del nord. Per sua natura, lo spazio russo è quasi del tutto privo sia di significative barriere geografiche che della sicurezza derivante dalla costa marittima. Ciò ha portato questa nazione a cercare la propria sicurezza nella profondità territoriale espandendosi e controllando proprio la zona di convergenza di cui sopra. Tenendo in mente questo si capisce come il Caucaso sia uno dei punti fondamentali nello scenario russo dal momento che le sue lunghe catene montuose sono perfette per difendere il confine sud dalle spinte provenienti dal grande medioriente.

Negli ultimi 20 anni il dibattito geopolitico si è concentrato su l'esportazione delle risorse energetiche lungo l'asse spaziale est-ovest: collegamento tra la massa di terra centro-asiatica e l'Europa. L'acquisizione delle risorse derivanti dalla fase II dei campi di Shaha Deniz è stata presentata  da molti media come il grande risultato di Bruxelles nella partita con Mosca sulla la diversificazione energetica. Questa visione, anche se non del tutto erronea è incompleta. Infatti si devono prendere in considerazione 3 punti.
1 Innanzitutto la quantità di Gas che arriverà in Italia nel 2018 è solo di 10 Bcm (ampliabili nel tempo a 28) contro i 500Bcm di fabbisogno europeo.
2 le pipeline provenienti dall'Azerbijan che esportano gas e petrolio in Europa passano tutte in territorio geogiano a pochi Km dal confine sud ossezo. Visto il loro tragitto e la loro posizione l'esercito russo ha virtualmente la possibilità di interrompere in qualsiasi momento il flusso delle esportazioni.
3 In ultimo la TAP non risolve il problema di quei paesi europei come la Romania e a Bulgaria che dipendono per il 100% dal gas russo.
Se si prendono in considerazione questi tre aspetti si capisce che il vero significato di questo progetto non è così chiaro come sembra.

Per una piena comprensione del vettore est-ovest che attraversa questa regione, ora, dobbiamo necessariamente far riferimento alla Turchia.
Se guardiamo a quella che è l'ecumene panturanica ( cioè l'insieme dei popoli turchi che va dall'Anatolia all'Uguri Xinjang in Cina), notiamo come questa accerchi e isoli quasi completamente l'heartland del popolo armeno. Lo spazio panturanico è stato visto nei primi anni dopo la caduta dell'Uunione Sovietica come l'estero vicino Turco e anche se oggi dopo la scomparsa del presidente Ozal l'assertività della Turchia è molto diminuita, Ankara continua a sfruttare le affinità socio-culturali che la legano alle popolazioni turcomanne di questa regione. Tale situazione, nel tempo ha modellato la politica estera di Yerevan portandola a compiere delle scelte che le permettessero di rompere l'accerchiamento. Si spiega quindi la spinta armena verso la Russia e i suoi rapporti con Teheran che negli anni hanno creato un vettore nord-sud che si contrapponeva a quello est-ovest. Si spiega in questa maniera anche l'avvicinamento di Yerevan alla Grecia che è stata ben contenta di bilanciare la Turchia proprio nella regione caucasica che è cuore dell'interesse nazionale.

La promozione del vettore est-ovest ha portato Ankara negli anni a proporsi come get-away (porta di fuga) tra l'Occidente e l'Asia occidentale. La strategia turca si è basata da questo punto di vista sulla simultanea promozione del corridoio energetico da una parte [1] e dall'altra la promozione del progetto ferroviario Baku Tibilis Kars congiunzione caucasica della iron silk road: il proggetto di mobilità ferroviaria che dovrebbe collegare l'Europa direttamente con l'Asia orientale.

Concludendo, per avere un quadro completo non possiamo sottacere il ruolo svolto dall'Iran. La spinta iraniana proveniente da sud ha creato un triangolo tra Azerbaijan Armenia e Iran che fa letteralmente a pezzi la teoria dello scontro di Civiltà di Huntington. L'Iran infatti, dopo la caduta dell'Unione Sovietica, invece di appoggiare l'Azerbaijan Shiita ha deciso di avvicinarsi a Yerevan in funzione antiturca, dal momento che dopo l'elezione di Alcybey gli iraniani vedevano l'influenza di Ankara crescere esponenzialmente nella regione. Un'azione questa che ha dato vita ad una partership che si è rivelata vitale per l'autonomia armena, sia dal punto di vista energetico che della sicurezza.

Nei primi anni del conflitto del Karabakh inoltre l'Iran ha mantenuto il flusso di rifugiati azeri nel suo territorio nazionale al minimo. C'era infatti il timore che questo flusso avrebbe alimentato rivendicazioni nazionaliste tra la comunità azera del nord. Oggi la situazione è comunque decisamente diversa. La comunità azera del nord in Iran si è dimostrata abbastanza ben integrata all'interno del sistema statale e personalmente io porrei più l'attenzione sulla minoranza Talish in Azerbaijan piuttosto che su quella azera in Iran.

Negli scorsi anni Teheran è stata sempre paranoica nei confronti di dell'Azerbaijan sostenendo come il territorio nazionale potesse essere usato in maniera strategica per un attacco dal nord.
La prospettiva rimane oggi comunque piuttosto improbabile da un punto di vista strategico, dal momento che lascerebbe l'Azerbaijan troppo esposto alle ritorsioni iraniane da sud e ad un possibile intervento delle forze speciali russe di stanza sul Caspio a nord. Il trattato militare difensivo con la Turchia nel 2010 e il recente aumento della forza difensiva missilistica azera hanno riacceso, però, le paranoie di Teheran a riguardo. Una nuova intesa con l'Iran sembra essere stata ritrovata solo recentemente dopo la firma dell'accordo sulla sicurezza caspica che vieta alle forze militari dei paesi non litorali accedere allo spazio marittimo del Caspio.

Vediamo come la regione del sud del Caucaso è una realtà estremamente complessa ma spero comunque di aver fornito degli spunti di riflessione per il pubblico qui presente vi ringrazia ancora, buon giorno.




[1] la strategia energetica turca in questo campo oggi si accentra sulla convergenza di tre remificazioni energetiche diverse provenienti dal Bosforo e il Mar Nero, dalla Georgia e dall'Iran collegandosi con il turkmenistan)

giovedì 5 febbraio 2015

Yemen: ennesimo stato fallito?

Medio Oriente
Matrioska di conflitti in Yemen 
Eleonora Ardemagni
30/01/2015
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In Yemen non c’è più un governo, né un presidente. Il 22 gennaio, dopo che gli huthi, i miliziani sciiti zaiditi del nord, assediavano da giorni il palazzo presidenziale di Sana’a, Abdu Rabu Mansur Hadi, presidente ad interim dal 2012, e Khaled Bahah, premier del governo tecnico che aveva ottenuto la fiducia parlamentare in dicembre, si sono dimessi.

Il parlamento ha rinviato sine die la sessione straordinaria e Washington ha chiuso la sua ambasciata.

Quattro governatorati del sud, fra cui Aden e l’Abyan epicentro delle campagne droni statunitensi contro Al-Qaida nella Penisola Arabica, Aqap, hanno rifiutato le dimissioni, in solidarietà con il corregionale Hadi. La manifestazione pro-governativa che ha riempito sabato 24 le strade di Sana’a è stata dispersa dai miliziani sciiti con spari in aria e arresti arbitrari.

Escalation huthi
Il movimento religioso-politico-militare degli huthi nasce negli anni Ottanta a Saada: il defunto fondatore, Husayn Al-Huthi rivendicava l’identità sciita zaidita (l’imamato governò lo Yemen del Nord fino al 1962) contro la “sunnizzazione” dell’Islam yemenita incoraggiata dal potere centrale e propiziata dal soft-money power dell’Arabia Saudita.

Dopo le dimissioni, nel 2011, del presidente Ali Abdullah Saleh, gli huthi - basati nella regione settentrionale di Saada - hanno conquistato numerosi territori. Questo anche grazie alle armi e alla desistenza di unità dell’esercito ancora fedeli a Saleh. Nel farlo hanno sconfitto le milizie sunnite legate a Islah (partito che raggruppa Fratelli musulmani e salafiti) e alla famiglia Al-Ahmar nel loro feudo, Amran, verso Sana’a.

Questo avveniva nello stesso momento in cui Ansarullah, il movimento politico huthi, partecipava al dialogo nazionale incaricato di riscrivere la costituzione, giocando dunque sia sul tavolo politico che su quello militare.

Quando nell’agosto 2014 il governo ha ridotto i sussidi sui carburanti, gli huthi hanno occupato la capitale, dapprima in modo pacifico, poi scontrandosi con forze di sicurezza e milizie filo-governative: l’Accordo nazionale di pace siglato da tutte le parti in settembre ha temporaneamente arginato la violenza urbana, costituendo un governo tecnico sostenuto anche da Ansarullah e dagli autonomisti del Movimento meridionale.

No alla riforma federale
La battaglia per l’autonomia delle terre settentrionali è presto divenuta il perno della lotta huthi. Ansarullah si è però subito opposto alla riforma federale elaborata da Sana’a che raggruppa le roccaforti del movimento nella nuova macro-regione di Azal, densamente popolata, scarsa di risorse energetiche, priva di sbocchi sul mare.

Gli huthi hanno così rapito Ahmed Awad bin Mubarak, segretario della commissione di riforma. La situazione è precipitata in fretta, con l’assedio al palazzo presidenziale e alla residenza privata del presidente, conclusasi con il fallito attentato al convoglio del premier.

Quattro livelli di scontro
Sono almeno quattro i livelli, intrecciati, del conflitto in Yemen. Vi è lo scontro centro-periferia tra gli insorti del nord e l’autorità centrale, incarnato nel sud dal Movimento meridionale, ormai portatore d’istanze indipendentiste.

C’è poi la lotta per il potere fra gli apparati della transizione, monopolizzati da Islah, e l’élite dell’ancien regime che fa capo ai Saleh (il figlio Ahmed ora in prima linea).

Questa battaglia si riproduce nell’esercito, frantumato, che risponde a capi tribali tra loro rivali e non alle istituzioni di Sana’a. Non è un caso che il blocco di Saleh e gli huthi stiano convergendo strumentalmente contro le milizie sunnite, come testimonia la rapida avanzata territoriale di Ansarullah che ha conquistato territori sia sulla costa occidentale (Hodeida, terminal petrolifero) che nel cuore sunnita delle aree centro-meridionali (Mareb, Dhamar, Ibb).

L’ascesa huthi e il collasso del potere centrale stanno poi rinvigorendo Aqap che ora attacca non solo poliziotti e militari yemeniti, ma anche riunioni e celebrazioni sciite zaidite: pur di frenare la penetrazione degli huthi, molte tribù sunnite del centro-sud si stanno alleando con i qaidisti, alimentando una contrapposizione settaria che non fa parte della storia dello Yemen.

Infine, gli huthi sono sospettati di ricevere armi e finanziamenti dall’Iran, mentre l’Arabia Saudita, che sosteneva Saleh e poi Hadi, vede naufragare l’accordo di transizione negoziato dal Consiglio di cooperazione del Golfo nel 2011 e ha sospeso gli aiuti finanziari a Sana’a.

La sconfitta di Obama, il test per Salman
La campagna di counterterrorism statunitense in Yemen non ha contribuito a fortificare le istituzioni yemenite. Washington rischia ora di trovarsi senza interlocutori politici nel paese: se è vero che gli huthi, come gli Usa, sono contro Aqap, è altrettanto vero che il discorso politico dei miliziani di Ansarullah è caratterizzato da uno spiccato anti-americanismo.

È anche per questo che lo Yemen sarà senza dubbio al centro dell’incontro di Riyadh fra il presidente Obama e il nuovo re saudita Salman bin Abdulaziz. Quello che succede nei dintorni di Sana’a offre ai due una complicatissima chance di cooperazione regionale.

Eleonora Ardemagni, analista di relazioni internazionali del Medio Oriente, collaboratrice di Aspenia, ISPI, Limes. Sta frequentando il Master in Middle Eastern Studies dell’ASERI (Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali).
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