SCENARI,
REGIONI, QUADRANTI,
Il carisma iraniano e la Rivoluzione Islamica.
Alla
luce dei rivolgimenti che hanno interessato il quadrante mediorientale, dal 2010 in poi, non si può
fare a meno di volgere lo sguardo alla Repubblica Islamica dell’Iran.
Con
un anticipo di circa trent’anni rispetto agli altri Stati del quadrante
mediorientale, l’Iran ha messo in atto quella sua particolare Primavera dalle
sfumature sciite, rendendo ancora attuale e interessante l’analisi delle
dinamiche che nel 1979 hanno plasmato e caratterizzato il suo assetto
istituzionale.
Il presente scritto avrà dunque il suo focus sugli anni immediatamente
precedenti la Rivoluzione
khomeinista e sulle modalità di transizione della monarchia iraniana verso lo
Stato islamico. Modalità di transizione che ricordano, in particolare, quanto
sta accadendo nell’Egitto dei Fratelli Musulmani dal novembre del 2012 fino ad
oggi.
La prima rottura
negli equilibri della società iraniana fu segnata dalla cosiddetta Enqelab-e Sefid, o Rivoluzione Bianca.
Avviata nel 1963, l’Enqelab costituì
un processo di modernizzazione ed occidentalizzazione forzata, suggerito
dall’amministrazione Kennedy allo Shah Mohammed Reza Pahlavi.
Le ragioni che
spinsero Washington e Teheran ad avviare il piano di riforme
sottostavano a due differenti logiche di potenza. Dal lato statunitense, la
presenza di un forte partito comunista
in
Iran prospettava il pericolo di un’ipotetica “contaminazione” sovietica del
Paese, per cui agganciare il Paese a Washington con ingenti finanziamenti a
programmi di modernizzazione, appariva come il modo migliore per allontanare la
società iraniana da un’evoluzione in senso socialista.
Da parte iraniana,
lo Shah vedeva nel legame con gli Stati Uniti, una risorsa da sfruttare al fine
di incrementare il peso geopolitico del proprio Paese e per risanare il deficit
nella bilancia dei pagamenti nazionale.
I disequilibri
sociali cui portò il programma si tradussero nella rottura della
Taqiyya da parte del clero
sciita, tradizionalmente quietista, preludio di quanto sarebbe accaduto un
decennio più tardi. E precisamente nel convulso Giugno 1963, emerse la figura
dell’
Ayatollah Ruhollah Khomeini:
risoluto avversario dello Shah e delle sue riforme anti islamiche, attaccò
pubblicamente il regime, invitando il clero a rompere con il quietismo
.
Khomeini
s’impossessò di slogan e temi delle altre forze d’opposizione attive nell’arena
politica iraniana, ricreando un composito programma politico, condiviso da un
ampio strato della popolazione. Egli rivestì con l’immediatezza e semplicità di
un linguaggio afferente all’antica e radicata tradizione sciita, temi mutuati
dal movimento democratico-liberale, dal Tudeh
e dal Fronte Nazionale. La lotta contro un potere politico arbitrario e
oppressivo, l’obiettivo della giustizia sociale, la difesa della sovranità
iraniana costituirono i punti nodali della propaganda khomeinista.
Il carismatico Ayatollah comprese come veicolare
efficacemente un messaggio politico a masse estranee dalla res publica iraniana: facendo riferimento alla tradizione nota e
condivisa della Shi’a, trasmise
abilmente gli stessi messaggi che i partiti politici iraniani non erano
riusciti a diffondere.
Dal 1963 dunque, si
verificò un’inversione di tendenza nell’approccio del clero alla politica.
Questo si unì poi ad una saldatura, nell’azione dei destabilizzazione del
regime monarchico, del clero con i Bazari,
l’attiva classe sociale legata al Bazar,
il mercato, danneggiata dalle riforme economiche dell’Enqelab.
Man mano che le
proteste sociali crescevano, il prestigio dell’Ayatollah in esilio andava aumentando fino ad ottenere, da parte
delle maggiori forze politiche del Paese, il riconoscimento di leader indiscusso dell’opposizione alla
monarchia Pahlavi.
Con l’avvento della
presidenza Nixon nel 1969 e la sua politica estera di
détente, l’Iran, al confine
meridionale dell’Unione Sovietica, affacciato sul Golfo e ricco di risorse
energetiche, si presentava come il candidato ideale per svolgere il compito di
sentinella dell’Occidente nello scenario mediorientale.
Con un viaggio a
Teheran, nella primavera del 1972, il presidente Nixon e il segretario di Stato
Kissinger conclusero con lo Shah il sodalizio.
La disponibilità
del sovrano ad assecondare le richieste statunitensi era dettata non solo
dall’esigenza di alleviare la compromessa situazione economica del Paese e di
attenuare i disagi della popolazione, ma anche, e soprattutto, dall’opportunità
di fare dell’uscita di scena britannica dal Golfo Persico, l’occasione d’oro
per assurgere allo status di potenza regionale nel quadrante
.
Divenire il maggior partner degli Stati Uniti significava, per l’Iran, detenere
la posizione egemone nell’area, permettendogli di liberamente agire e sfruttare
a proprio vantaggio, con il benestare e il supporto – economico e tecnico –
degli amici americani, una regione ricchissima e strategicamente ubicata. L’identificazione
della politica estera iraniana con quella americana aumentò ulteriormente
l’impopolarità dello Shah presso un Paese in cui orgoglio nazionale e
sentimento antiamericano, legato al colpo di Stato ai danni di Mossadeq
,
erano molto forti.
Nel frattempo,
l’aumento degli introiti petroliferi a causa dell’impennata del prezzo del
greggio nel 1973
, non acquietò gli animi
degli iraniani, nemmeno alleviarono la crisi economica in cui versava il Paese
da ormai un decennio
. Il
popolo protestò contro l’imponente spesa nazionale destinata all’acquisto di
armamenti, futile in un settore già ampiamente potenziato. Gli iraniani
chiesero di dar priorità alle politiche sociali di cui aveva bisogno, e di
mettere in secondo piano le politiche di difesa. Inoltre gli acquisti di
armamenti avevano luogo negli Stati Uniti, portando dunque ad un ritorno in
mano statunitense di quei fondi sottratti a Washington stessa per mezzo delle
abili manovre in sede OPEC.
A fronte della
celere perdita di consensi presso la popolazione, a metà degli anni ’70
l’immagine della monarchia appariva completamente deteriorata. Sotto
l’incalzare della dura repressione e dell’inesorabile marcia dello Shah verso
l’Occidente, religiosi e componenti politiche secolari si unirono in un connubio
antimonarchico e antiamericano.
L’evento che spinse
definitivamente il clero a scendere in piazza al fianco degli iraniani, il 9
gennaio 1978, fu la pubblicazione di un articolo, su un quotidiano controllato
dal governo, che accusava Khomeini di essere una spia britannica e di essere
omosessuale. Muovendosi in difesa dell’Ayatollah
in esilio, il popolo dette avvio ad una serie di manifestazioni e scioperi che
si protrassero durante tutto l’anno.
Mohammed Reza Shah
rispose introducendo la legge marziale e contemporaneamente, premendo le
autorità irachene a trasferire Khomeini a Parigi, al fine di allontanare dal
Medio Oriente l’Ayatollah rivoluzionario. Questa fu la mossa fatale alla
dinastia: anziché isolare Khomeini, il trasferimento lo pose sotto i riflettori
dell’opinione pubblica mondiale. La sua voce ebbe ancor più risonanza in tutto
il Medio Oriente e il popolo iraniano, incalzato dalla guida, si spinse
completamente alla rottura con il sistema monarchico.
Seguirono massicci
scioperi fino all’Ottobre del 1978, mese in cui l’Iran cadde in ginocchio con
l’interruzione delle produzioni industriale e petrolifera e con l’arresto degli
afflussi di capitale nel Paese. L’erogazione di energia elettrica fu sospesa e
il sistema dei trasporti si arrestò: l’apparato statale era paralizzato. Il 5
Novembre ebbe luogo la protesta più imponente del periodo di fermento
antimonarchico: l’ambasciata britannica fu attaccata, gli uffici del governo e
i negozi saccheggiati, una statua dello Shah nell’ateneo di Teheran rovesciata.
Il sovrano nominò un governo militare, e, nell’estremo tentativo di salvare le
simpatie della classe media e laica del Paese, nominò premier Shapour
Bakhtiyar, membro del laico Fronte Nazionale.
Da Parigi, Khomeini
continuava a incoraggiare gli iraniani e a demandar loro di non cessare la
mobilitazione totale del Paese. Gli eventi continuarono a precipitare, fino al
Dicembre 1978, quando prese avvio una dimostrazione popolare, con a capo due Ayatollah, Talaqani e Sanjabi, che
coinvolse circa due milioni di iraniani. La protesta continuò fino al Gennaio
del 1979, accompagnata da ricorrenti diserzioni nell’esercito. Gli iraniani
chiedevano le dimissioni del premier, l’abdicazione dello Shah e soprattutto,
il ritorno dell’Ayatollah Khomeini in
patria.
Egli rientrò in Iran il primo Febbraio
1979. Nei giorni seguenti, quel che
restava dell’
establishment precedente
si avviò al disfacimento. Su impulso di Khomeini e del Comitato Rivoluzionario
Islamico (Cri)
, il clero operò per la
creazione di nuove, parallele istituzioni, smantellando definitivamente gli
ereditati resti dell’assetto istituzionale monarchico.
Con l’esecutivo
affidato a Mehdi Bazargan e a ministri provenienti dal suo partito, il
Movimento di Liberazione dell’Iran, e dalla corrente laica del Fronte
Nazionale, le forze più attive della rivoluzione, quelle religiose e quelle di
sinistra, furono escluse dalla compagine governativa. La loro assenza
dall’arena politica invece di danneggiarle, le avvantaggiò, consentendo loro
un’ampia libertà di manovra e di non assumersi la responsabilità delle
difficoltà che il Paese viveva.
L’azione del Cri, i cui obiettivi erano
lo svuotamento di potere delle istituzioni nazionali e la liquidazione delle
forze politiche liberali e nazionalistiche dalla nuova scena politica, indebolì
Bazargan che cercava, con scarsi risultati, di rafforzare la propria autorità.
Egli fu dapprima posto di fronte all’esautorazione del quadro istituzionale
ufficiale con la nascita dei
Komiteh,
i comitati rivoluzionari sorti su impulso delle sinistre
. In
seguito, dovette fare i conti con l’impossibilità di controllare gli islamisti
e il clero khomeinista
. Per
mezzo del Cri, Khomeini divenne centro politico dell’assetto istituzionale che
andava creandosi e assunse la direzione dei
Komiteh, divenuti
parallele istituzioni rappresentative a base locale.
Fondamentale nel
processo di destrutturazione dell’apparato statale monarchico, fu la creazione
dell’imponente Bonyad-e Mostazafin, la Fondazione degli
Oppressi, che inglobò i beni confiscati alla Fondazione Pahlavi e i depositi
bancari della famiglia regnante e di quelle ad essa legate. Controllata da ‘Ali
Khamenei e da Rafsanjani, la
Fondazione era al servizio di Khomeini e finanziava la rete
organizzativa e gli ufficiosi centri di potere legati al Comitato
Rivoluzionario.
L’Iran si ritrovò in breve tempo
imbrigliato in una situazione di doppio Stato. Da un lato, vi erano istituzioni
ufficiali esautorate, manchevoli di credibilità e guidate da una classe
dirigente priva della fiducia e dell’appoggio popolari. Dall’altro lato, vi
erano Khomeini, il Cri e
la Bonyad-e Mostazafin,
istituzioni parallele che si occupavano di economia e servizi sociali, e i
Komiteh, strumenti con i quali l’
Ayatollah mise in piedi l’efficiente
rete dei tribunali militari e in seguito il corpo dei
Sepah-e Pasdaran-e Enqelab-e Islami, Corpo delle Guardie della
Rivoluzione Islamica
.
La situazione di
dualismo istituzionale appena descritta si avviò verso una ricomposizione alla
fine del Marzo 1979, quando gli iraniani decisero di abolire la monarchia e
instaurare una Repubblica Islamica. Il referendum vide la partecipazione di
oltre venti milioni di cittadini e il 98,2% di essi scelse la Repubblica.
Il cambio di regime si consacrò nella
nuova Costituzione, espressione del principio khomeinista del Velayat-e Faqih; lo Stato islamico era
nato.
[2] Il piano di riforme si
sviluppava lungo i seguenti punti: riforma agraria; privatizzazione di numerose
industrie statali; nazionalizzazione delle risorse idriche, delle foreste e dei
pascoli; creazione dell’esercito del sapere, per sconfiggere l’analfabetismo e
migliorare l’assistenza sanitaria nelle aree rurali; estensione del diritto di
voto attivo e passivo alle donne e modifica del tradizionale codice di
famiglia; istituzione di tribunali civili nelle aree rurali, per ridurre il
potere del clero sciita e dei tradizionali tribunali religiosi.
Una volta fallito il containment diretto con l’esperienza
vietnamita, la presidenza americana, sotto impulso del segretario di Stato
Henry Kissinger, abbracciò la cosiddetta détente,
la distesa nei rapporti con l’altro blocco. La détente prevedeva la creazione di legami amichevoli con alleati, di
volta in volta da definire, in ogni quadro regionale, in modo tale da creare un
“guardiano” degli interessi occidentali, ma solo laddove questi ultimi si
configuravano come vitali.
Negli anni Settanta,
difatti, il disimpegno della potenza inglese dallo scacchiere mediorientale
determinò un vuoto di potere, che il Regno era determinato a colmare; ambizione
per quella posizione egemone, per altro, condivisa dall’altra potenza
petrolifera della regione, l’Arabia Saudita, con la quale la monarchia persiana
si avviava ad un contrasto insanabile.
Meglio noti come Pasdaran, essi svolsero sin dalla
primavera del 1979, funzioni militari e di polizia sia al fine di contrastare
una possibile restaurazione dello Shah, sia per porre un freno alle ambizioni
politiche della sinistra. Il corpo dei Pasdaran, composto da uomini provenienti
dai ceti più bassi, si considerò, fin dalla sua creazione, devoto all’Imam e la
sua sussistenza dipendeva interamente dai finanziamenti della Fondazione degli
Oppressi. La
Bonyad-e Mostazafin arrivò a gestire un’imponente quantità di
denaro e dunque fu in grado di finanziare sia le milizie che i seguaci di
Khomeini.