Alla fine del 2019, il Kurdistan iracheno appariva tranquillo, anche grazie alla novità del nuovo governo di coalizione, al quale i cittadini sembravano voler concedere fiducia. Così, mentre la parte meridionale dell’Iraq veniva scossa da grandi mobilitazioni, quella curda restava sorprendentemente pacifica.
Purtroppo, che gli effetti negativi legati alla transizione generazionale nella politica curda avrebbero coinvolto, prima o poi, anche la Regione autonoma era un fatto noto, compreso persino dal vecchio Barzani che negli anni scorsi si è fatto, almeno formalmente, da parte. Inoltre, che il 2020 sarebbe stato un anno complicato lo si è capito con la caduta del prezzo del greggio, che per l’Iraq, come per la Regione autonoma curda, rappresenta un problema enorme, vista la dipendenza pressoché totale del bilancio dal petrolio: quello del governo di Arbil aveva contato nel 2019 per quasi l’80% delle entrate dai ricavi della vendita di greggio, con una prevista diminuzione per quest’anno di almeno il 20% delle entrate. La pandemia ha poi, inevitabilmente e duramente, complicato il quadro.
Il governo di Baghdad ha presentato un piano, un White paper, che con una serie di misure, tra cui l’impopolare svalutazione del dinaro (determinando nuove proteste a partire dalla scorsa estate), tenti di far ripartire l’economia. Un primo passo è stato raggiunto dall’accordo sui trasferimenti alla Regione autonoma, siglato tra governo centrale e delegazione curda nei giorni scorsi. Il bilancio dovrà essere approvato dal Parlamento federale a Baghdad e le incognite restano ancora molte, vista la crisi politica interna, la debolezza del governo centrale di Mustafa al-Kadhimi e gli enormi problemi del Paese che hanno fatto parlare più di un osservatore della possibilità di un collasso.
La crisi economica ha cominciato a farsi sentire anche nel Kurdistan e nelle settimane scorse sono scoppiate nella Regione autonoma diverse proteste, spesso finite nel sangue. I manifestanti si sono radunati di fronte alle sedi dei partiti politici, per protestare contro tagli e i ritardi nei pagamenti degli stipendi, l’aumento del costo della vita e l’endemica corruzione: sempre nel 2019 il bilancio della Regione contava per oltre il 50% i salari pagati ai dipendenti, in un’area nella quale il settore privato è estremante limitato (problema condiviso con il governo federale e il resto del Paese). Non si tratta, quindi, di ‘semplice’ corruzione, ma della progressiva perdita di legittimità di tutto il sistema politico, accelerata dalle crisi degli ultimi anni e oggi esplosa con le difficoltà di far quadrare i conti.
Fatti certamente non nuovi: va sempre più emergendo una critica radicale delle mobilitazioni spontanee alla rappresentanza politica, definita dai partiti politici, quelli ‘storici’, come il Partito democratico del Kurdistan (PDK) e l’Unione patriottica del Kurdistan (UPK), e persino quelli di più recente formazione, come Gorran. Nel Kurdistan questa critica è stata più lenta che altrove, sia perché nel corso degli ultimi quindici anni il sistema politico aveva tentato di riformarsi (il ritorno all’unità amministrativa tra le province divise di PDK e UPK, la nascita di Gorran come nuova forza politica per rompere il monopolio dei partiti storici) sia per la presenza di figure storiche a loro modo riconosciute che garantivano una certa continuità tra la vecchia e la nuova generazione. Ora che queste figure cominciano a mancare (poche settimane prima del referendum del 2017 è morto Nawshirwan Mustafa, ispiratore di Gorran, mentre pochi giorni dopo è mancato Jalal Talabani dell’UPK), i partiti sono percepiti esclusivamente come strutture di corruzione e di nepotismo: da questo punto di vista la critica dei manifestanti è radicale e non ammette più mediazioni. Da qui la protesta delle scorse settimane potrà estendersi se la classe politica curda non capirà di doversi aprire a queste nuove generazioni e avviare il fondamentale processo di riforma della Regione (da augurarsi anche che l’Unione Europea modifichi il proprio atteggiamento con l’area e cerchi una maggiore convergenza).
Alla crisi interna si affiancano gli storici problemi tra i partiti curdi iracheni e il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK, Partîya Karkerén Kurdîstan): nelle ultime settimane la tensione è nuovamente esplosa, con accuse reciproche e la possibilità che queste tensioni si estendano anche alla Siria.
Anche la situazione dei Curdi siriani è ben lontana dalla stabilità, con i problemi derivanti dalla fragilità della mediazione russa. Lo stallo di Idlib, ancora occupata dalle forze antigovernative e filoturche, è l’elemento di maggiore preoccupazione, dato che Assad ha più volte dichiarato che la città è territorio siriano. Oltre alla sicurezza delle comunicazioni (Idlib potrebbe costituire un ponte per attacchi futuri, su Aleppo a nord, come verso la parte meridionale del regime), per Damasco il valore simbolico del recupero di una città capofila della rivoluzione e della guerra civile è enorme.
La situazione sul campo resta estremamente confusa, con la Turchia che, oltre a fare pressione su Assad, ha iniziato da settimane mobilitazioni sull’altro fronte, proprio quello curdo.
Qui è in vigore un accordo con la Russia, siglato al termine di un’altra operazione turca in territorio curdo-siriano. Forze militari di Ankara si stanno mobilitando vicino la città di Ain Issa, sotto il fuoco di bombardamenti delle milizie filoturche. La città, posta lungo la strada M4, che arriva fino a Idlib e poi al mare, è di poco oltre la zona di sicurezza congiunta russo-turca definita dall’accordo del 2019. Prenderne il controllo significa tagliare il Nord della Siria in due, ma, soprattutto, isolare Kobane a ovest dal resto delle posizioni curde a est.
Le probabilità di una nuova operazione turca aumentano dal giorno della sconfitta di Trump: Ankara potrebbe temere una nuova svolta statunitense in Medio Oriente che rimetta in discussione l’attuale disimpegno sul fronte curdo da parte americana. Ecco perché, prima dell’insediamento di Biden, potrebbe tentare di alterare sul campo il rapporto di forze a proprio vantaggio (anche perché gli accordi turco-russi sin qui realizzati si basavano proprio sul presupposto di un disimpegno statunitense nell’area). Per ora alle provocazioni e agli attacchi turchi la Russia non ha risposto, i civili sono già in fuga e potrebbe anche sospettarsi un nuovo scambio tra Mosca e Ankara (una nuova operazione nel Nord-Ovest dei Turchi, in cambio del ritiro da Idlib).
Questa ipotesi desta non poche preoccupazioni tra i Curdi siriani, ma anche nella Regione autonoma, che in caso di attacco curdo dovrebbe confrontarsi anche con una nuova ondata di profughi in arrivo da occidente. Oltre al conflitto infra-curdo, che rischia di riaccendersi pericolosamente e sul quale potrebbero nuovamente tentare di approfittare tanto Ankara che Baghdad.