La miccia del Karabakh e la polveriera del Caucaso
di Maurizio Vezzosi
Quella del Nagorno-Karabakh è una delle tante guerre innescate dal crollo dell’Unione Sovietica e dalla sua onda lunga. Tra le ragioni che hanno prodotto questa nuova crisi ci sono sia elementi geopolitici che identitari. Venendo meno il multiculturalismo di cui l’Unione Sovietica si faceva giocoforza garante, le tendenze all’esasperazione identitaria ‒ nazionalista o religiosa ‒ hanno avuto la meglio sulla convivenza pacifica tra culture diverse.
Oggi l’Artsakh è una sorta di protettorato armeno de facto indipendente dal 1992, privo di riconoscimento internazionale e rivendicato dall’Azerbaigian. Si trova in territorio quasi del tutto montuoso, con una superficie pari grossomodo a quella dell’Abruzzo, abitato da circa 150 mila persone, in larga maggioranza armeni. Gli azeri, sostenendo le proprie rivendicazioni a partire dall’appartenenza della Repubblica Autonoma del Nagorno-Karabakh alla ex Repubblica Socialista Sovietica dell’Azerbaigian, denunciano che negli ultimi decenni molte famiglie azere siano state allontanate dall’Artsakh. Gli armeni, dal canto loro, sostengono che la cessione dell’Artsakh all’Azerbaigian favorirebbe le strategie panturche conducendo l’Armenia ad un nuovo Medz Yeghern (l’espressione con cui gli armeni si riferiscono al genocidio del 1915-16).
Il conflitto tra Armenia ed Azerbaigian si è riacceso a neppure ventiquattro ore dalla conclusione delle esercitazioni “Kavkaz 2020” ‒ svoltesi nella porzione meridionale della Federazione Russa compresa tra il Mar Nero, il Caucaso del Nord ed il Mar Caspio e condotte congiuntamente dalle forze armate russe, cinesi, bielorusse, iraniane, armene, pakistane e birmane: ben 80 mila gli uomini complessivamente impiegati. Negli ultimi mesi la Turchia ha consegnato all’Azerbaigian droni, missili ed altro armamento oltre ad aver organizzato esercitazioni congiunte tra proprie forze armate e quelle di Baku. Circa 1000 miliziani della “divisione Hamza” sarebbero stati trasferiti dalla Siria all’Azerbaigian con il sostegno turco. Questi ultimi, secondo l’ambasciatore armeno a Mosca Vardan Toganian, sarebbero addirittura 4 mila.
L’arrivo – ormai accertato – dei miliziani d’ispirazione jihadista rappresenta una questione assai seria. La loro presenza tra le file azere potrebbe rivelarsi un problema per la stabilità dello stesso Azerbaigian, che come la Federazione Russa a partire dagli anni Novanta si è trovato a dover fare i conti con il fenomeno della radicalizzazione islamica. Ad aggravare il quadro, c’è il confine settentrionale con il Daghestan, la turbolenta regione autonoma della Federazione Russa che rimane tutt’oggi una delle regioni della galassia postsovietica più interessate dalla violenza di ispirazione jihadista.
L’oltranzismo della Turchia, principale sostenitrice di Baku, sembra addirittura più intransigente di quello azero e nient’affatto propenso al compromesso. L’Armenia, verso Oriente, rappresenta uno dei principali ostacoli ai progetti sulla scorta dei quali si muovono le strategie di Ankara. Al di là delle responsabilità militari di entrambe le parti, l’Armenia si trova in una condizione di oggettivo svantaggio. Con un terzo degli abitanti dell’Azerbaigian – circa 3 milioni contro circa 10 milioni – l’Armenia ha un’economia che vale grossomodo un quarto di quella azera – con un PIL da circa 12 miliardi di dollari contro un PIL da 46 miliardi di dollari.
Il neottomanesimo ed il panturchismo che connotano la politica di Erdoğansembrano da leggersi in stretta correlazione con la fase di crisi strategica con cui gli Stati Uniti si trovano a dover fare i conti, soprattutto nel Vicino Oriente. Certamente negli ultimi anni i contrasti tra Ankara e Washington non sono mancati: tuttavia, dal Mediterraneo orientale allo Xinjiang, così come dal Corno d’Africa al Caucaso, le proiezioni di Ankara appaiono complementari alla strategia di contenimento antirussa e anticinese promossa dagli Stati Uniti.
Ad apparire verosimile è il nesso tra le nuove tensioni del Caucaso e la strategia di Ankara verso Oriente ‒ “Asia Anew” ‒ presentata lo scorso dicembre dal ministro degli Esteri turco Mevlüt Çavuşoğlu. Lo stesso Çavuşoğlu, alcune settimane fa aveva addirittura ventilato la possibilità di un intervento diretto di Ankara in sostegno alle truppe di Baku.
Il significato delle recenti dichiarazioni del segretario di Stato Mike Pompeo in favore di Erevan si può rintracciare nell’intento da parte dell’amministrazione Trump di non mettersi contro la comunità armena presente negli Stati Uniti, specie all’alba della tornata elettorale. Nel disegno strategico di Washington il fattore turco si pone come un elemento di controllo indiretto ‒ sul Mediterraneo, sull’Heartland e sul Rimland ‒ e di pressione sui rivali di Pechino e di Mosca.
Il primo cessate il fuoco, mediato dal ministro degli Esteri della Federazione Russa e sottoscritto dai suoi omologhi di Armenia ed Azerbaigian, non ha retto. A distanza di una settimana dall’entrata in vigore del primo, ne è stato sottoscritto un nuovo mediato dal Gruppo di Minsk, la cui tenuta è stata risibile, con reciproci scambi di accuse tra le parti. Dopo di questo, è stato sottoscritto un terzo accordo per il cessate il fuoco, mediato e sostenuto dagli Stati Uniti ed entrato in vigore dalla mattina del 26 ottobre.
Per Mosca la necessità di mantenere una sostanziale equidistanza tra Baku ed Erevan è più complicata che negli scorsi decenni. E non solo per il cordone ombelicale che lega l’Armenia alla Federazione Russa o per la presenza stabile di migliaia di militari russi in territorio armeno.
Nel nuovo Grande gioco per l’egemonia sul Caucaso e sull’Asia Centrale pesano il ruolo degli attori regionali – come la Turchia – così quello delle altre crisi postsovietiche – Bielorussia, Ucraina e Kirghizistan – che Mosca si trova a dover fronteggiare simultaneamente.
Mancando i presupposti concreti per una soluzione politica, la risoluzione del conflitto del Karabakh resta lontana. Mentre sul fronte del Karabakh si continuano a registrare combattimenti si attende un nuovo vertice moscovita tra il primo ministro armeno Nikol Pashinyan e quello azero Ilham Aliyev, a cui starebbe lavorando la diplomazia del Cremlino.
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