mercoledì 26 aprile 2017

Iraq: verso spiragli di pace

Opzioni di pace
Iraq: il buio oltre la presa di Mosul
Ludovico De Angelis
22/04/2017
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Dopo circa sei mesi dall’inizio dell’operazione per la riconquista del governatorato di Ninewa e il suo capoluogo Mosul, l’esercito regolare, la polizia federale, le forze speciali irachene - le Golden Division - e le Pmu, l’organizzazione ombrello che racchiude decine di milizie figlie della longa manus iraniana, hanno conquistato circa il 75% della roccaforte del sedicente Stato islamico, Isis o Daesh, tagliando il collegamento tra altre due importanti roccaforti: Tal Afar e al-Ba’aj.

Recentemente, dopo uno stallo durato un mese, le forze irachene hanno avviato una nuova offensiva nella città vecchia di Mosul, che per lungo tempo era rimasta impermeabile a causa della morfologia del territorio e la tenace resistenza dei combattenti Daesh.

La Gran moschea di al-Nuri, dalla quale Abu Bakr al-Baghdadi proclamò il Califfato nel giugno del 2014, s’avvicina progressivamente, così come il crollo della roccaforte jihadista. Tuttavia, in una comunicazione interna del Daesh rinvenuta di recente, l’organizzazione anticipa la sconfitta negli agglomerati urbani, promettendo che “Il Califfato non finirà con la perdita del suo territorio”.

Al momento, data la centralità del progetto di costituzione di uno Stato, condizionato all’esercizio di un effettivo controllo territoriale, non è dato sapere se, o come, Daesh rivisiterà la propria ideologia per far fronte alle sfide della nuova, verosimile, realtà.

Ciò che oggi sappiamo però, è che la nascita del Daesh è il frutto di complesse logiche sociali e politiche che dalla fine dell’invasione statunitense in Iraq del 2003 sono progressivamente venute ad intersecarsi nei territori dell’antica Mesopotamia. Ora che Mosul si appresta ad esser conquistata, evitare il riaffermarsi di tali variabili potrebbe rappresentare una delle chiavi di volta per una pace duratura in Iraq.

L’esclusione della comunità sunnita
Sin dell’invasione americana del 2003, gli insorti che si opponevano al nuovo assetto politico del Paese riuscirono a penetrare la società arabo sunnita, da sempre maggiormente vicino all’ex Raìs Saddam Hussein: anzi, eccetto per la minoranza salafita-jihadista - il cui passaggio in territorio iracheno veniva tacitamente tollerato, quando non incoraggiato, dal regime iraniano e da quello siriano di Bashar al-Assad -, essi erano reale espressione di quella stessa società.

I laici saddamisti ed arabo-nazionalisti appartenenti al partito Ba’th (smantellato da Paul Bremer e Ahmed Chalabi), gli elementi collegati ad unità tribali, gli islamisti moderati e radicali, acquisirono un “vantaggio morale” rispetto al governo centrale a causa del senso di insicurezza ed incertezza generatosi nella comunità della Sunnah sin dal 2003.

Per i membri delle forze di sicurezza e del partito Ba’th, tali frustrazioni erano causate dalla perdita di status economico e sociale, per alcune tribù, dalla fine di incentivi economici elargiti dal passato regime e, per i sunniti in generale, dal timore di un governo di lungo corso a guida sciita che avrebbe inesorabilmente marginalizzato economicamente e politicamente la suddetta minoranza.

Ad oggi, tali preoccupazioni risultano giustificate. Infatti, con l’elezione a premier nel 2006 dello sciita e filo iraniano Nouri al-Maliki, l’embrione delle politiche corrottesettarie e discriminatorie verso la minoranza sunnita, che si acuiranno dopo il ritiro statunitense nel 2011 e con l’inizio del suo secondo mandato, era già in grembo.

Le responsabilità di al-Maliki
Negli anni successivi infatti, egli accentrò il potere militare e politico nella figura del premier che, assieme alla politica del divide et impera nei confronti della leadership arabo sunnita, nonché alla dilagante corruzione, contribuì a generare quel risentimento che riaccese nel tardo 2012 l’ondata di proteste pacifiche contro il governo nelle regioni della Sunnah, che si trasformarono da un movimento di protesta, violentemente represso, a una vera e propria lotta armata.

Fu in tale contesto macchiato da eccidi settari che l’allora Isi, dal 2013 Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, riuscì a plasmare l’insorgenza, proclamando nel giugno del 2014 il Califfato.

Con tutta probabilità, questa storia sarebbe potuta andare diversamente se solo la minoranza sunnita non fosse stata marginalizzata negli anni addietro: difatti, nel 2008 il ramo di al-Qaeda in Iraq - ribattezzatosi Isi dal 2006 - si trovava nel mezzo di un inesorabile declino.

A dircelo era il successore di Osama bin Laden Ayman al-Zawahiri, in accese missive con l’allora leader di al-Qaeda in Iraq (Aqi), Abu Ayyub al Masri - successore di al-Zarqawi - che l’organizzazione aveva compromesso la propria credibilità agli occhi dei cittadini arabi sunniti iracheni.

Il motivo risiedeva nella brutalità delle operazioni terroristiche compiute, le quali, mietendo ingenti vittime tra la popolazione civile ed elevandone a dismisura la percezione d’insicurezza, contribuirono a delegittimare l’operato jihadista: tale fattore, assieme alla rivolta delle tribù sunnite nella provincia di Anbar del 2007 - l’Anbar Awakening - e la capacità delle forze di sicurezza volontarie ad essa associate - i Sons of Iraq - di escludere progressivamente dal territorio Aqi, ridusse notevolmente il raggio d’azione ed influenza di quest’ultima: in definitiva, fu proprio il ritrovato empowerment della comunità arabo sunnita ad espellere Aqi, considerata un corpo estraneo.

Uno spiraglio per la pace
La storia recente irachena ci insegna che l’assenza di un’alternativa politica, securitaria ed economica alla violenza armata ha favorito il proliferare di gruppi estremisti. Ma nel pantano iracheno, il flebile fuoco della pace continua ancora ad ardere. Difatti, ricerche dimostrano che la popolazione irachena ha storicamente avuto, più che un concreto supporto, una diluita acquiescenza nei confronti del Daesh: la natura etnico-settaria è più una conseguenza che la vera causa del conflitto, la quale è insita più che in antiche e millenarie rivalità tra gruppi, nella governance discriminatoria, e corrotta, del governo centrale.

Per tali ragioni, una reale risoluzione del conflitto dovrà necessariamente passare da un’adeguata partecipazione della minoranza sunnita all’interno dei meccanismi politico-governativi centrali, ma anche dalle concessioni alle istituzioni delle province sunnite, quale quella di Mosul, che dovranno rafforzare gli organi di governance locale – sia securitari che politici - in un concreto e progressivo processo di decentramento che sappia offrire strumenti autonomi di gestione alle realtà sunnite indigene.

Ludovico De Angelis studia Relazioni Internazionali ed ha effettuato un tirocinio presso lo IAI ed il Ministero degli Affari Esteri. (@__Ludovico).

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