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Dopo circa sei mesi dall’inizio dell’operazione per la riconquista del governatorato di Ninewa e il suo capoluogo Mosul, l’esercito regolare, la polizia federale, le forze speciali irachene - le Golden Division - e le Pmu, l’organizzazione ombrello che racchiude decine di milizie figlie della longa manus iraniana, hanno conquistato circa il 75% della roccaforte del sedicente Stato islamico, Isis o Daesh, tagliando il collegamento tra altre due importanti roccaforti: Tal Afar e al-Ba’aj.
Recentemente, dopo uno stallo durato un mese, le forze irachene hanno avviato una nuova offensiva nella città vecchia di Mosul, che per lungo tempo era rimasta impermeabile a causa della morfologia del territorio e la tenace resistenza dei combattenti Daesh. La Gran moschea di al-Nuri, dalla quale Abu Bakr al-Baghdadi proclamò il Califfato nel giugno del 2014, s’avvicina progressivamente, così come il crollo della roccaforte jihadista. Tuttavia, in una comunicazione interna del Daesh rinvenuta di recente, l’organizzazione anticipa la sconfitta negli agglomerati urbani, promettendo che “Il Califfato non finirà con la perdita del suo territorio”. Al momento, data la centralità del progetto di costituzione di uno Stato, condizionato all’esercizio di un effettivo controllo territoriale, non è dato sapere se, o come, Daesh rivisiterà la propria ideologia per far fronte alle sfide della nuova, verosimile, realtà. Ciò che oggi sappiamo però, è che la nascita del Daesh è il frutto di complesse logiche sociali e politiche che dalla fine dell’invasione statunitense in Iraq del 2003 sono progressivamente venute ad intersecarsi nei territori dell’antica Mesopotamia. Ora che Mosul si appresta ad esser conquistata, evitare il riaffermarsi di tali variabili potrebbe rappresentare una delle chiavi di volta per una pace duratura in Iraq. L’esclusione della comunità sunnita Sin dell’invasione americana del 2003, gli insorti che si opponevano al nuovo assetto politico del Paese riuscirono a penetrare la società arabo sunnita, da sempre maggiormente vicino all’ex Raìs Saddam Hussein: anzi, eccetto per la minoranza salafita-jihadista - il cui passaggio in territorio iracheno veniva tacitamente tollerato, quando non incoraggiato, dal regime iraniano e da quello siriano di Bashar al-Assad -, essi erano reale espressione di quella stessa società. I laici saddamisti ed arabo-nazionalisti appartenenti al partito Ba’th (smantellato da Paul Bremer e Ahmed Chalabi), gli elementi collegati ad unità tribali, gli islamisti moderati e radicali, acquisirono un “vantaggio morale” rispetto al governo centrale a causa del senso di insicurezza ed incertezza generatosi nella comunità della Sunnah sin dal 2003. Per i membri delle forze di sicurezza e del partito Ba’th, tali frustrazioni erano causate dalla perdita di status economico e sociale, per alcune tribù, dalla fine di incentivi economici elargiti dal passato regime e, per i sunniti in generale, dal timore di un governo di lungo corso a guida sciita che avrebbe inesorabilmente marginalizzato economicamente e politicamente la suddetta minoranza. Ad oggi, tali preoccupazioni risultano giustificate. Infatti, con l’elezione a premier nel 2006 dello sciita e filo iraniano Nouri al-Maliki, l’embrione delle politiche corrotte, settarie e discriminatorie verso la minoranza sunnita, che si acuiranno dopo il ritiro statunitense nel 2011 e con l’inizio del suo secondo mandato, era già in grembo. Le responsabilità di al-Maliki Negli anni successivi infatti, egli accentrò il potere militare e politico nella figura del premier che, assieme alla politica del divide et impera nei confronti della leadership arabo sunnita, nonché alla dilagante corruzione, contribuì a generare quel risentimento che riaccese nel tardo 2012 l’ondata di proteste pacifiche contro il governo nelle regioni della Sunnah, che si trasformarono da un movimento di protesta, violentemente represso, a una vera e propria lotta armata. Fu in tale contesto macchiato da eccidi settari che l’allora Isi, dal 2013 Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, riuscì a plasmare l’insorgenza, proclamando nel giugno del 2014 il Califfato. Con tutta probabilità, questa storia sarebbe potuta andare diversamente se solo la minoranza sunnita non fosse stata marginalizzata negli anni addietro: difatti, nel 2008 il ramo di al-Qaeda in Iraq - ribattezzatosi Isi dal 2006 - si trovava nel mezzo di un inesorabile declino. A dircelo era il successore di Osama bin Laden Ayman al-Zawahiri, in accese missive con l’allora leader di al-Qaeda in Iraq (Aqi), Abu Ayyub al Masri - successore di al-Zarqawi - che l’organizzazione aveva compromesso la propria credibilità agli occhi dei cittadini arabi sunniti iracheni. Il motivo risiedeva nella brutalità delle operazioni terroristiche compiute, le quali, mietendo ingenti vittime tra la popolazione civile ed elevandone a dismisura la percezione d’insicurezza, contribuirono a delegittimare l’operato jihadista: tale fattore, assieme alla rivolta delle tribù sunnite nella provincia di Anbar del 2007 - l’Anbar Awakening - e la capacità delle forze di sicurezza volontarie ad essa associate - i Sons of Iraq - di escludere progressivamente dal territorio Aqi, ridusse notevolmente il raggio d’azione ed influenza di quest’ultima: in definitiva, fu proprio il ritrovato empowerment della comunità arabo sunnita ad espellere Aqi, considerata un corpo estraneo. Uno spiraglio per la pace La storia recente irachena ci insegna che l’assenza di un’alternativa politica, securitaria ed economica alla violenza armata ha favorito il proliferare di gruppi estremisti. Ma nel pantano iracheno, il flebile fuoco della pace continua ancora ad ardere. Difatti, ricerche dimostrano che la popolazione irachena ha storicamente avuto, più che un concreto supporto, una diluita acquiescenza nei confronti del Daesh: la natura etnico-settaria è più una conseguenza che la vera causa del conflitto, la quale è insita più che in antiche e millenarie rivalità tra gruppi, nella governance discriminatoria, e corrotta, del governo centrale. Per tali ragioni, una reale risoluzione del conflitto dovrà necessariamente passare da un’adeguata partecipazione della minoranza sunnita all’interno dei meccanismi politico-governativi centrali, ma anche dalle concessioni alle istituzioni delle province sunnite, quale quella di Mosul, che dovranno rafforzare gli organi di governance locale – sia securitari che politici - in un concreto e progressivo processo di decentramento che sappia offrire strumenti autonomi di gestione alle realtà sunnite indigene. Ludovico De Angelis studia Relazioni Internazionali ed ha effettuato un tirocinio presso lo IAI ed il Ministero degli Affari Esteri. (@__Ludovico). |
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mercoledì 26 aprile 2017
Iraq: verso spiragli di pace
mercoledì 19 aprile 2017
Siria. Armi chimiche e incertezza politica
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Il bombardamento della base aerea di al Shayrat da parte degli Usa risuona come il tuono di un fulmine in un cielo (non) sereno. Richiama in modo diretto l’agosto 2013, quando Barack Obama rinunciò a un’azione del genere nei confronti del regime di Assad dopo l’uso ripetuto di armi chimiche nel conflitto in Siria. La Russia fece allora da garante, spingendo per uno smantellamento delle armi non convenzionali.
Quel disarmo è stato ufficialmente completato nel 2016, ma i recenti episodi mostrano che s’è trattato di un’operazione perlomeno incompiuta, il che mette in evidenza la poca affidabilità del regime siriano e della Russia. Con l’accordo sullo smantellamento dell’arsenale chimico, Mosca s’era garantita un rinnovato ruolo nel gioco mediorientale. L’investimento era poi proseguito con l’invio di caccia e truppe per spalleggiare Damasco, un regime che deve la sua sopravvivenza all’aiuto russo ma anche iraniano. All’epoca, il boccone risultò a molti amaro. Possiamo ricordare la posizione francese, talmente convinta della necessità di contrastare militarmente il regime di Assad da accarezzare l’idea di un intervento nazionale. Tra l’altro, il fatto di non avere punito tempestivamente la Siria per l’uso di armi chimiche nel 2013 è rimasto un rammarico costante della presidenza di François Hollande, convinto che quell’impunità abbia lasciato troppo spazio al regime di Assad e abbia anche sminuito la credibilità dell’Occidente di fronte a una Russia bellicosa. Trump fa rispettare l’altrui linea rossa E quindi assai paradossale costatare oggi che il presidente Donald Trump punisce la Siria per avere superato una linea rossa fissata dal suo predecessore. La logica della campagna per le presidenziali statunitensi sembrava consegnare la presidenza Trump a un relativo isolazionismo, con l’aggiunta d’una buona dose di pragmatismo internazionale, lasciando spiragli di convivenza se non di intesa con russi e siriani. Ma dopo una prima fase di spoil sistem ieratica, l’inserimento di ex generali nei posti chiave della difesa e della sicurezza ha dato un volto decisionista all’Amministrazione Trump. Nella decisione dell’attacco della notte tra giovedì e venerdì, c’è anche una componente psicologica collegata al piglio autoritario del neo-presidente statunitense, che ha iniziato a manifestare insofferenza nei confronti di regimi percepiti sia come ostili sia come inadempienti ai richiami americani. Ed è particolarmente il caso della Corea del Nord che, con lo sviluppo delle capacità missilistiche, viene percepita come una minaccia intollerabile da parte degli Usa. Segnali in molte direzioni Vari nodi sono dunque venuti al pettine per la presidenza Trump, con un problema di fondo: la credibilità degli Stati Uniti e la loro influenza diretta sugli affari del Mondo. Trump non ha fatto altro che manifestare la sua insoddisfazione nei confronti di una serie di situazioni internazionali. Il bombardamento di civili a Khan Sheikun è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, ma ha anche aperto una finestra di opportunità per affermare il nuovo corso della politica americana. La dittatura di Assad, prigioniero della sua arroganza, ha fatto un passo falso, proprio quando era giunto il momento per Washington di calare le carte per uscire dalla spirale di messe in guardia delle ultime settimane. Non va sottovalutato l’effetto psicologico, con un Trump che nella sua conferenza stampa notturna dichiarava di essere stato colpito dalle immagini di bambini soffocati dai gas. Gli Stati Uniti tornano, dunque, a colpire con lanci di tomahawk; e il loro attacco raggiunge vari bersagli. Prima di tutto, rafforza la credibilità della presidenza. Poi, colpisce la Siria, ma manda anche un segnale forte sia alla Russia che all’Iran. E il messaggio viene anche inviato ai nord coreani, e più in generale a tutti coloro con cui gli Usa hanno rivendicazioni aperte. Tra l’altro la decisione di lanciare i missili è stata presa ai margini di un vertice con il presidente cinese Xi Jinping, un’utile coincidenza. Una batosta per Mosca, scenari europei Anche se la Russia è stata avvisata dall’attacco americano, si tratta di una batosta per Mosca che certamente protesterà, ma che alla fine dovrà assorbire il colpo, avendo assimilato l’informazione che il presidente Trump ha il grilletto facile. Mentre nel periodo precedente il regime di Putin aveva interiorizzato che poteva usare la forza per ricattare un’Occidente percepito come debole, adesso il rischio di risposta militare si alza notevolmente, il che riduce in modo automatico gli spazi di azione della Russia. Ma anche dal punto di vista europeo questo intervento apre nuovi scenari. La presidenza Trump è stata osteggiata da parte della stragrande maggioranza dei governi e delle opinioni pubbliche europee. Questa ostilità poggia su motivi comprensibili come la politica restrittiva di Trump in materia di visti e immigrazione, la sua volontà di smantellare il sistema di sanità pubblica creato da Obama nonché la posizione contraria alla tutela dell’ambiente di un presidente che di fatto abbandona gli accordi di Parigi sul clima. Nel caso del bombardamento in Siria gli Stati Uniti si sono però mossi in sintonia con le opinioni pubbliche europee, anche quelle più pacifiste e inclini al rispetto dei diritti dell’uomo. S’è così potuto constatare un contenuto ma sostanziale sostegno sia da parte dei singoli governi europei che dell’Unione che individua nella Siria il colpevole. È pure ovvio che alcune capitali, come Parigi, abbiano espresso soddisfazione per il colpo inferto ad Assad. Quest’episodio non risolve la questione siriana. Potrebbe anche avere effetti collaterali negativi se il regime di Assad riuscisse ad apparire come vittima di un’aggressione degli Usa. Non chiarisce nemmeno il ruolo di Washington nella zona, in quanto l’operazione sembra destinata a restare isolata. Però riporta gli Stati Uniti a un ruolo attivo e a una valutazione più articolata delle situazioni complesse: una svolta nei confronti dei toni della campagna elettorale. Jean Pierre Darnis è Direttore Programma Sicurezza e Difesa IAI. |
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