Il 7 febbraio la Knesset, il Parlamento israeliano, ha approvato una legge che regolarizza circa 4000 alloggi israeliani che si trovano in Cisgiordania (chiamata anche West Bank), che con la Striscia di Gaza forma i Territori Palestinesi.
Ai sensi della legge appena approvata, i palestinesi che si sono visti espropriate le proprie terre potranno scegliere tra nuove assegnazioni o una retta annuale superiore al valore di mercato, ma ciò non è sufficiente a placare le polemiche anche interne allo stesso Stato israeliano, con il procuratore generale che ha affermato che alcuni giudici potrebbero impugnare tale legge.
Il governo Netanyahu ha atteso, per l’approvazione definitiva della legge, il passaggio di consegne alla Casa Bianca, dato che l’approvazione in prima lettura aveva provocato la condanna da parte delle Nazioni Unite. E in risposta all’astensione nel Consiglio di Sicurezza degli Stati Uniti sulla condanna, il premier israeliano aveva fatto sapere tramite un tweet di non vedere l’ora di lavorare con l’allora presidente eletto Donald Trump.
Netanyahu e Trump si incontreranno presto a Washington: uno tra i primi punti dell’incontro potrebbe essere l’Iran, Paese recentemente oggetto dell’ordine esecutivo del neo presidente Usa che impedisce viaggi negli Stati Uniti a cittadini di sette Paesi e che rientra nelle preoccupazioni di Israele a causa della questione atomica. Ma anche la Siria e il sedicente Stato Islamico saranno tra i punti che verranno discussi dai due presidenti, i quali non si sono risparmiati manifestazioni di simpatia reciproche.
Un conflitto storico Sono passati esattamente cento anni dall’accordo Sykes-Picot del 1917 che definiva le rispettive sfere di influenza in Asia Minore tra Francia e Regno Unito e dalla Dichiarazione Balfour (poi inserita nel Trattato di Sèvres) che guardava con simpatia alla creazione di un “focolare ebraico” in Palestina.
Dopo la prima guerra mondiale il territorio della Palestina finì sotto mandato britannico, almeno fino al 1947 quando il Regno Unito passò la responsabilità alle Nazioni Unite. Già l’anno seguente scoppiava la prima guerra arabo-israeliana, come risposta alla dichiarazione d’indipendenza israeliana. Nel 1956 la guerra scoppiava tra Israele ed Egitto e nel 1967 si consumava un nuovo conflitto, la cosiddetta “guerra dei Sei Giorni”, portando per la prima volta la West Bank sotto controllo Israeliano.
L’Unione europea, allora Comunità economica europea, non riusciva ad adottare una posizione comune, ma nel 1971 il “Documento Schumann” richiamava Israele al ritiro dai Territori occupati. Così nel 1973 il conflitto si riaccendeva con la guerra dello “Yom Kippur”; e i Paesi dell’Opec ponevano un embargo verso la Cee portando alla prima crisi petrolifera.
Lo stesso anno il vertice arabo di Algeri riconosceva l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina come l’unico e legittimo rappresentante del popolo palestinese e nel 1978 si arrivava agli accordi di pace di Camp David tra Israele ed Egitto.
Una lunga serie di tentativi di pacificazione e nuove ostilità seguiva negli anni ’80 e ’90: la guerra del Libano nell’82, la prima Intifada nel 1987, il processo di pace di Oslo nel 1993 durante il quale fu scattata la famosa fotografia in cui Yasser Arafat e Yitzhak Rabin si stringono la mano di fronte all’allora presidente degli Stati Uniti Bill Clinton. Ma nel 2000 parte la seconda Intifada, seguita nel 2005 dal conflitto di Gaza che si trascina fino ad oggi.
Le reazioni internazionali Dopo il 7 febbraio, le diplomazie internazionali non hanno atteso a farsi sentire. Certamente un ruolo di primo piano sarà giocato, come sempre, dagli Stati Uniti che, proprio nell’ultima fase della presidenza Obama, si erano astenuti al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite consentendo l’approvazione della risoluzione 2334 - sancisce che le attività di insediamento sono contrarie al diritto internazionale.
Tuttavia, il recente cambio di guardia alla Casa Bianca porta incertezza sul ruolo che gli Stati Uniti vorranno perseguire nella questione, tenuto pure coto delle dichiarazioni del neo-presidente Trump di volere spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, città con status internazionale.
Il presidente dell’Associazione nazionale palestinese (Anp) Abu Mazen ha denunciato, tramite il suo portavoce, che la legge appena approvata è contraria alla recente risoluzione delle Nazioni Unite, le quali hanno già condannato quanto avvenuto tramite il segretario generale Antonio Guterres. Ugualmente l’Ue ha preso posizione, esortando Israele a non attuare la nuova legge, mentre la Turchia ha dichiarato che tale risvolto mette a rischio le prospettive di pace.
La questione presto toccherà anche l’Italia, dato che nel 2017 siede nel Consiglio di Sicurezza, dopo l’accordo con l’Olanda per dividere il biennio di copertura di un seggio non permanente. Nel manifesto del suo mandato al Consiglio di Sicurezza, l’Italia dichiara di voler favorire il ruolo del Consiglio nel processo di pace in Medio Oriente tra Israele e Palestina, incoraggiando la ripresa di negoziati diretti tra le due parti volti a favorire una pace basata sulla soluzione a due Stati.
Una simile posizione è stata adottata anche dal Consiglio dei Ministri dell’Ue in formazione Esteri, cui il ministro Alfano ha partecipato il 6 febbraio e le cui conclusioni vedono un’Ue preoccupata dalla situazione, mentre l’Alto rappresentante per la Politica estera e di Sicurezza Federica Mogherini dichiara che l’Unione è pronta a continuare a lavorare con le Nazioni Unite, i Paesi arabi e gli Stati Uniti per favorire il processo di pace.
Luigi Cino, Dottorando presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.
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