mercoledì 15 ottobre 2014

Stato Islamico: una guerra lungo e dolorosa

La guerra contro l’IS
Purché non sia una vittoria evanescente
Stefano Silvestri
23/09/2014
 più piccolopiù grande
Barack Obama ha affermato che l’obiettivo è quello di indebolire ed infine distruggere l’IS (lo pseudo-califfato creatosi su territori siriani ed iracheni).

Si tratta a questo punto di capire se, per ottenere una tale vittoria, saremo obbligati ad uccidere tutti i militanti jihadisti dell’IS (stimati ad oltre 30mila unità) oppure se esistano altre strade più facili, economiche e legalmente accettabili. Non è evidente.

Chi fa parte dell’IS
L’IS non è uno stato vero e proprio, ma raccoglie sotto lo stesso tetto una congerie diversa di combattenti, ognuno con le sue motivazioni e i suoi obiettivi, che condividono forse solo l’odio nei nostri confronti: ricchi sceicchi del Golfo, forze tribali sunnite in lotta contro la repressione di Baghdad o di Damasco, giovani musulmani occidentali in preda ai loro demoni personali, miliziani jihadisti di ogni nazionalità, spesso veterani di altre guerre, ed ex “baathisti” e militari iracheni alla riconquista del potere perduto.

Hanno una loro capitale di fatto, a Raqqah, in Siria, strappata alla minoranza curda che vi risiedeva, ma i territori e le infrastrutture, compresi i pozzi di petrolio, che attualmente controllano, restano legalmente parte degli stati preesistenti, la Siria e l’Iraq, che ne rivendicano la sovranità: il che rende più problematico attaccarli.

È alto il rischio che la sconfitta di alcuni non sia percepita come una sconfitta di tutti, replicando su scala mediorientale gli psicodrammi che segnarono la fine della I Guerra mondiale in Europa, preparando il terreno per il suo drammatico seguito.

L’esercito tedesco accolto dalla Repubblica di Weimar come “non sconfitto”, e quindi legittimato a rifiutare le “umiliazioni” di Versailles. La “vittoria tradita” degli italiani.

Il grottesco balletto tardo-coloniale sulle spoglie dell’Impero Ottomano, che ci ha lasciato in eredità le crisi balcaniche e buona parte di quelle mediorientali di questi anni. Non sarebbe saggio lasciare simili aperture ai terroristi jihadisti.

Come muoversi contro l’IS
Attaccare i combattenti, in particolare con le nuove armi di precisione, è facile, quando essi sono visibili, come formazioni di blindati o altri automezzi, concentrazioni di truppe, strutture logistiche, eccetera, ma diventa più problematico quando ad essere visibili sono solo le infrastrutture civili “rubate” ai due stati nominalmente sovrani.

E soprattutto quando, secondo i principi della guerra “ibrida” che essi stanno conducendo, i combattenti ripiegano e si nascondono tra la popolazione: fino a che punto possiamo o ci vogliamo spingere?

Né sarebbe saggio affidare il “lavoro sporco”, quello sul terreno e tra la popolazione , ai possibili “alleati” locali, anch’essi in possesso di loro obiettivi, niente affatto coerenti con i nostri. Vogliamo forse appoggiare l’offensiva di truppe regolari e irregolari sciite contro i combattenti, ma anche le popolazioni sunnite?

Affidarsi all’Iran, alle truppe sciite irachene, ai curdi e magari anche all’esercito rimasto fedele a Bashar el-Assad significherebbe che, con il nostro appoggio e consenso implicito, essi condurrebbero selvagge operazioni di pulizia etnico-religiosa e costringerebbero intere popolazioni a massicci esodi, non dissimili da quelli voluti dall’IS.

Per tale strada il Medio Oriente potrebbe realmente divenire l’inizio di una guerra estesa a tutto il mondo islamico ed oltre, senza più confini regionali o continentali.

In passato, quando doveva risolvere una crisi analoga (e nel solo Medio Oriente ce ne sono state molte, nel corso dei secoli), l’autorità imperiale e religiosa, sconfitti i ribelli militarmente, li spingeva fuori dalle grandi città e dalle aree più produttive, verso montagne più o meno isolate, oasi lontane o altri luoghi di difficile accessibilità, dove potevano continuare le loro pratiche eretiche senza più essere una minaccia politica, anzi, diventando persino, nel tempo, una possibile risorsa, una minoranza isolata su cui si poteva contare per combatterne altre.

Ma l’era di Internet e delle comunicazioni globali non consente più questa comoda e relativamente umana soluzione. La distruzione, se inevitabile, deve essere completa.

Esistono alternative? Forse, ma richiedono importanti aggiustamenti politici, oltre che militari. David Cameron ha dato voce all’indignazione diffusa nel mondo occidentale dopo la diffusione dei filmati sull’assassinio degli ostaggi, affermando che quei “combattenti” debbono essere trattati come criminali, in particolare gli espatriati, da gettare in prigione, buttando via la chiave.

Ma (a parte lo spettro di nuove Guantanamo) non è la politica de seguire. Lo ha notato subito l’ex capo dell’anti-terrorismo britannico, Richard Barrett, ricordando come eventuali pentiti o anche solo dissociati siano una fonte importantissima di informazioni, tanto più utili in quanto scarse.

Ci sono “pentiti” nell’IS?
Ma c’è molto di più. Il messaggio di morte e di terrore lanciato dall’IS non è diretto solo contro i suoi avversari, ma al suo interno, per impedire ogni defezione o ripensamento.

Analisi condotte sulla base delle poche informazioni disponibili suggeriscono che circa un quarto dei combattenti espatriati vorrebbe trovare il modo di tornare, e abbandonare una lotta rivelatasi molto diversa dai sogni iniziali, ma non trova modo di farlo, anche a causa nostra. E invece il crescere del numero dei pentiti e dei dissociati potrebbe infliggere una ferita mortale al fascino militante dell’IS.

La battaglia va condotta a livelli molteplici. Quello militare deve puntare a distruggere le capacità delle forze di manovra e ridurre o paralizzare le capacità estrattive e di trasporto e contrabbando degli idrocarburi, da cui l’IS trae il grosso dei suoi finanziamenti.

Quello politico deve scardinare l’alleanza dei terroristi con le tribù e le popolazioni locali, offrendo ai sunniti strade più sicure e remunerative di riscatto e ripresa e modificando il quadro politico-istituzionale in Iraq e Siria.

Quello religioso, rivolto essenzialmente alle reclute arabe dei jiahdisti, sulla base di esperienze già in atto in molti paesi, tra cui l’Arabia Saudita e il Pakistan, deve proporre una lettura alternativa e più corretta delle sacre scritture e dei loro comandamenti.

Ma infine quello identitario, che interessa particolarmente i nostri paesi e i nostri terroristi, deve reindirizzare questa particolare “fan-culture” che ha spinto tanti giovanissimi ad identificarsi con questa realtà vista come aperta, egualitaria, fraterna, eccitante, persino gloriosa e “cool”!

Un’immagine che, con i meccanismi propri del “digital fandom” è stata creata almeno in parti eguali dal messaggio iniziale e da come esso è stato riscritto, interpretato e modificato dai suoi utenti, secondo i loro sogni e i loro bisogni. Il pentito e il dissociato riportano brutalmente la realtà all’interno del gioco e, se ben utilizzati, possono rompere il giocattolo.

E come nella parabola del figliuol prodigo, non sarà per festeggiare il figlio ritrovato che verrà ucciso il vitello grasso, anche se questo sarà il messaggio pubblico, ma per rendere evidente e indiscutibile il trionfo del padre.

Stefano Silvestri è direttore di AffarInternazionali e consigliere scientifico dello IAI.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=2812#sthash.sfg9tRur.dpuf

Nessun commento:

Posta un commento