sabato 20 dicembre 2025

Tra propraganda ed etica tra tirannide e democrazia

 


Sergio Benedetto Sabetta

 

 

            La fine della storia è una narrazione tipica delle potenze dominanti che dicono alle province del loro impero non esservi altra storia, a queste viene lasciata l’economia quale area su cui impegnarsi con un doppio beneficio sia per le province che per il cuore dell’impero, al potere ci penserà il centro dell’impero al cui modello, viene raccontato, tutti anelano conformarsi, in questo vi è la fine della storia.

            Un racconto che sostanzialmente si è ripetuto nei secoli, per giungere all’’800 e ‘900 tanto negli imperi coloniali inglese e francese che nel socialismo reale, in cui vi era un fine escatologico identico ad una religione della lotta di classe di cui l’URSS era la terra promessa.

            Con la fine della storia si riteneva che se tutti i popoli fossero stati liberi avrebbero voluto essere come noi, con istituzioni democratiche e libertarie, salvo accorgersi che nelle differenze culturali tale idea non era vera, d'altronde i popoli per l’Occidente risultano essere una creazione prevalentemente legislativa,  frutto della Rivoluzione francese che nel creare il cittadino, ripescando la tradizione romana, ne ha incanalato la natura violenta e aggressiva, riducendo il tutto come fine della storia.

            Se nel momento del recupero della realtà, a seguito delle difficoltà USA e della loro richiesta di impegno finanziario, di uomini e di mezzi all’Europa, superando il racconto propagandistico e gli slogan irrazionali con cui agisce la propaganda, tuttavia vi è il tentativo da parte delle potenze emergenti di sostituire gli USA nel racconto sulla fine della storia, ponendosi come elemento ultimo.

            Se i leaders non sono che il prodotto dei popoli, i tecnici in politica permettono la loro de responsabilità in caso di fallimento, l’Io quale frammentazione del tutto vine riunito nell’irrazionale, la cui semplificazione è lo slogan.

            Nel pensiero antico dai greci in avanti la normalità era la guerra, la pace era intesa quale tregua, questo in quanto solo dal dinamismo prodotto della violenza umana organizzata nascono tutte le cose (Machiavelli, Hegel).

            Dalle macerie della Guerra dei Trent’anni (Pace di Westfalia), nasce il diritto internazionale con il riconoscimento reciproco tra Stati, comprese grandi potenze e piccoli stati, un’idea già anticipata da Grozio nel ricomporre il dissidio tra pensiero ed azione nel 1625, ma solo con Bentham nel 1789 si ha la sua teorizzazione con la proposta del disarmo, della rinuncia alle colonie, l’istituzione di un Tribunale internazionale e la rinuncia alla diplomazia segreta, elementi ripresi nei 14 punti di Wilson del gennaio 1918 attraverso il Decreto sulla Pace dei Soviet del novembre 1917.

            Già in Platone le istituzioni sono considerate quale fattore di riduzione della conflittualità, dove la politica governa la tecnica ossia il fare, rapporto completamente ribaltato nel presente, negli antichi l’etica e la politica coincidono nella collettività secondo natura, tanto che Aristotele ritiene venire la collettività prima dell’individuo.

            Nel Seicento nasce lo Stato legale (Hobbes), per cui si immagina che gli uomini cedano volontariamente parte della propria libertà allo Stato per una possibile convivenza negata dalle lotte dello stato di natura, sciogliendo in tal modo il rapporto tra etica (giustizia) e politica degli antichi. La politica viene così a seguire solo la legge, si ottiene lo Stato assoluto entrando nell’età dell’assolutismo, fino alla Rivoluzione francese dove nasce il cittadino e l’uguaglianza.

            Hegel osserva che con l’aumentare quantitativo di un fenomeno si ha una modifica del paesaggio, ossia qualitativa, tanto che Marx ne deduce relativamente alla moneta che con il suo aumentare questa diventa progressivamente un fine ultimo a se stesso teso all’accumulo, diventa il mondo. Lo stesso accade attualmente con la tecnica la quale ha creato un mondo dove, nel dovere correre più velocemente della razionalità umana, si piega l’uomo alla tecnica stessa seguendo il principio dell’efficienza totale.

            La politica non è più in grado di governare la tecnica viene quindi meno la stessa etica, nel principio di efficienza propria della tecnica la politica passa all’economia che decide, ma questa è solo una efficienza priva di un senso, non riuscendo a controllarne gli effetti la tecnica diene fine a se stessa, nell’estrema difficoltà di una decisione essendo la società troppo complessa si procede per slogan, si passa in tal modo al populismo. L’abbattimento della cultura è funzionale al populismo favorendo la manipolazione dell’opinione pubblica e quindi della democrazia, dobbiamo tuttavia tenere presente che nel mondo solo il 20% sono democrazie, una minoranza.

            Proprio perché impero ogni impero ha una propria cultura, su questa premessa gli USA si sono accorti dei limiti nella proposta al mondo del proprio modello che viene rigettato in molte aree del globo, d’altronde sono, secondo la geopolitica, le caratteristiche culturali di ciascuna comunità che creano specifiche istituzioni. In contrasto con i precetti della filosofia politica per la quale sono le istituzioni e i partiti politici che danno le caratteristiche, circostanza che fa ritenere possibile prevederne le evoluzioni, il concetto platonico delle idee quali fondamento, emerge chiara l’idea che gli imperi hanno sempre bisogno dell’ideologia quale cemento culturale.

            Attualmente nelle democrazie, in presenza della separazione tra esercizio della sovranità e governo, vi è il problema del consenso in quanto, una volta superata la competizione elettorale, vi è la necessità di ascoltare le minoranze in una post-competizione realizzando tre “C”: coordinamento; collaborazione; cooperazione; attualmente al consenso viene a mancare la cooperazione.

            Partendo dalle premesse che vi è un potenziale contrasto tra l’Io e la specie, in cui vi è un perenne conflitto tra egoisti e altruisti, sorge il problema della libertà confusa con l’indeterminatezza, ma per ridurre la conflittualità occorrono valori, leggi, educazioni, comandamenti, istituzioni. Se negli animali vi sono istinti quali risposte rigide agli stimoli, in una mancanza di libertà, negli esseri umani vi sono pulsioni che devono essere controllate e dirette, necessita una educazione.

            I greci non credevano nella libertà ma nel destino ad ognuno assegnato, la libertà da noi affermata comporta responsabilità, da cui consegue la punibilità, ma anche una visione positiva del futuro. La tecnica nel creare una distinzione tra vita pubblica e vita privata ha creato anche una identità sociale, frutto dell’interiorizzazione dell’inconscio tecnologico.

            Ogni generazione ha impresso un trauma generazionale, partendo dalla Grande Guerra si ha le generazione perduta, a cui segue nelle dittature la generazione silenziosa, nella ricostruzione del dopoguerra in cerca di sicurezza la generazione del baby boeme, nel dopo ’68 nello scetticismo e ricerca di protezione con il fai da te la generazione X, a cavallo dei millenni vi è la ricerca di un senso da parte della generazione dei millennials, all’inizio del nuovo millennio nella generazione Z nasce la ricerca della visibilità attraverso la rete in un’ansia da fragilità psicologica, l’attuale generazione Alfa vede nella tecnologia una estensione della propria identità, infine si prevede per la futura generazione Beta una totale identificazione con la macchina, ossia un elemento esecutivo della tecnica, dove il sistema ne sfrutta la fragilità sia per l’economia che per la politica, una generazione completamente assorbita e appiattita sulla tecnica.

            Già Papa Giovanni XXIII con l’Enciclica Pacem in Terris aveva sottolineato che la tecnica impone un cambio del pensiero e delle ideologie, principio già a sua volta sottolineato nel Congresso del 1959 in Germania dai Socialisti tedeschi con un documento nel quale si chiedeva  un cambiamento dei parametri di pensiero, ponendo la tecnica a rischio l’umanità.  

martedì 9 dicembre 2025

Missioni di Pace . Testimonianza di Antonello Messenzio Zanitti

 

SABBIA E SILENZIO                                                      


[Gen. D. (ris) Antonello Messenio ZANITTI]

 

Nel 2003 portavo sul petto il grado di Tenente Colonnello e prestavo servizio presso la Divisione “Mantova”, di stanza a Vittorio Veneto. Erano anni in cui la parola pace sembrava sempre più fragile, e l’Italia, insieme ai suoi alleati, fu chiamata a un compito difficile. Fui assegnato alla Multinational Division South-East (MND-SE), Divisione a guida britannica impegnata in Iraq, a seguito della lotta contro il terrorismo scaturita dopo l’attacco alle Torri Gemelle nel 2001.

Il mio incarico era quello di Capo Branca Piani (Chief G5) della Divisione, responsabile della pianificazione operativa dell’area sud-est dell’Iraq. Dietro quella sigla, “G5”, si nascondeva un mondo di mappe, piani, decisioni, notti insonni e responsabilità che pesavano come il deserto dopo il tramonto.

 

Il Comandante

Il Comandante, il Maggior Generale Graeme Lamb, appartenente alle forze speciali britanniche, era un uomo che rimane impresso nella mente: tutto di un pezzo, capace di ispirare fiducia e competenza solo con lo sguardo. A lui fornivo quotidianamente le diverse opzioni operative per le unità dipendenti, al fine di assolvere i compiti assegnati. Un Comandante con la “C” maiuscola, che — cadesse il mondo — trovava sempre la forza e l’energia per ogni cosa. Non mancava giorno che fermasse lo staff per annunciare: «Let me think». Poi lo vedevamo, a torso nudo, sfrecciare con i suoi inseparabili pattini a rotelle tra gli elicotteri d’attacco fermi sulla pista di rullaggio. Un grande, nel senso più autentico del termine.

 

La partenza

Partii per l’Iraq pochi mesi dopo la nascita di mio figlio, Giacomo. Ricordo ancora il suo viso piccolo e sereno, e il profumo della casa quando chiusi la porta per l’ultima volta prima di partire.

Sapevo che sarei rimasto lontano a lungo — più di cinque mesi senza sosta — immerso in un tempo in cui ogni giorno aveva lo stesso colore della sabbia e dello sforzo.

 

L’impegno quotidiano

Il mio mandato fu segnato da due eventi che resteranno incisi nella memoria di chi c’era: l’attentato di Nassiriya e la cattura di Saddam Hussein.

Il primo ci colpì nel profondo. Il rumore dell’esplosione attraversò non solo il deserto, ma le anime di tutti noi. Quella giornata mise a nudo la vulnerabilità di chi indossa l’uniforme non per gloria, ma per servizio. Eppure, fu anche il momento in cui capimmo quanto fosse grande il valore della coesione, del silenzioso coraggio di chi non si arrende. Ricordo come fosse oggi quel giorno. La Brigata italiana impegnata a Nassiriya, alle dirette dipendenze della Divisione in cui operavo, fu colpita… certamente non affondata. Minuto dopo minuto le informazioni arrivavano sempre più tristi, sempre più pesanti: la lista dei caduti sembrava non volersi fermare. Quel giorno il Comandante della Divisione prese carta e penna e scrisse un messaggio da trasmettere a tutti: un messaggio di forza, di chi non flette agli eventi. Lo ricordo bene, intatto nella mia mente:

“Signori, dei coraggiosi italiani hanno perso la vita oggi facendo il loro lavoro. È tempo ora di fare il nostro. Non siate deflessi da questi tragici eventi; il nemico continuerà a fare ogni cosa in suo potere per uccidere noi, i nostri soldati, piloti, marinai e civili che contribuiscono al nostro impegno per capovolgere la situazione qui in Iraq – loro falliranno. Ho sempre sostenuto che avremmo affrontato oscuri e difficili giorni avanti a noi – oggi è uno di questi. Ai miei amici italiani, miei fratelli in armi, voi avete la mia più profonda comprensione. Voi camerati avete pagato l’ultimo prezzo; loro non hanno tradito noi – io non intendo tradire loro”. (Graeme Lamb, General Officer Commanding, Multi-National Division South-East, Iraq).

Il mio lavoro continuava, e sebbene la stanchezza si facesse sentire, ero orgoglioso di essere un ingranaggio di quella macchina che fa parte della Storia. In guarnigione eravamo relativamente al sicuro — una sicurezza che svaniva quando, settimanalmente, salivamo sugli elicotteri per raggiungere le Brigate dipendenti e affinare le pianificazioni operative. Erano voli tattici, a pochi metri dal suolo, facendo lo slalom tra le palme per evitare di essere ingaggiati da eventuali lanciarazzi RPG, con atterraggi rapidi — a volte troppo rapidi. Ricordo bene anche l’atterraggio su una portaerei americana, ormeggiata nel Golfo Persico. Lì, l’Ammiraglio comandante dell’unità volle ringraziare personalmente me — un semplice Tenente Colonnello — per quanto fatto e per quanto ancora da fare. Conservo ancora il “Coin” con l’emblema della portaerei che mi consegnò, passato di mano in mano come fosse il passaggio di un testimone. Un piccolo oggetto, ma carico di significato: un filo invisibile che lega tutti coloro che servono, perché il lavoro di uno si riflette inevitabilmente su quello degli altri che portano una divisa.

La cattura di Saddam Hussein portò invece un senso di svolta. Ricordo la notizia come un sussurro che si diffuse tra le tende e i centri operativi: la sensazione che qualcosa, forse, stesse davvero cambiando. Ma la guerra non conosce trionfi assoluti: ogni passo avanti aveva il peso di ciò che avevamo perso. Ancora una volta il Comandante scrisse:

“Le missioni sono ciò per cui viviamo e moriamo; l’Iraq non è stata un’eccezione. Qui voi avete fatto una reale differenza, a contatto con gente cui non è mai stato concesso un brandello di decenza, e avete contribuito a dare loro un’esistenza significativamente migliore. Ciò che facciamo in vita è il fondamento della nostra umanità. Noi poniamo noi stessi sulla via del pericolo, affrontando terrore e intimidazione, prendendo le difese di antichi ideali, della dedizione e del sacrificio. Noi restiamo in disparte dagli altri. Siamo una schiera di fratelli.

Non cerchiamo fama, ma la silenziosa solitudine di chi fa bene un lavoro difficile. Io sono immensamente orgoglioso di aver servito al vostro fianco. Continuate a operare come state facendo; mantenetevi al sicuro, ma se dovete marciare al suono delle armi, fatelo senza esitazione o timore di fallire. La vita mi ha insegnato che il coraggio non è un dono, ma la mera applicazione della forza di volontà. Siate forti. Molto è stato fatto e molto ancora è da fare. Il fallimento non è in considerazione, non è un’opzione”. (Major General Graeme Lamb, Commanding General, Multinational Division South-East, Iraq)

 

Il ritorno

Quando tornai a casa, dopo quei lunghi mesi, Giacomo era cresciuto. Lo trovai diverso, eppure familiare. Aveva imparato a sorridere senza conoscermi davvero, e io dovevo imparare a essere padre da capo. Portavo con me il silenzio del deserto, le voci dei camerati, e la consapevolezza che la distanza più grande non è quella tra i continenti, ma quella che si apre tra chi parte e ciò che lascia. Da allora, ogni volta che guardo una fotografia di quei giorni, rivedo non solo la missione, ma la fragile grandezza dell’essere umano quando serve qualcosa di più grande di sé.

 

 

 

 

 

Zanitti Antonello Messenio, 1964, Esercito Italiano, Divisione “Mantova”, Chief G5 nella Multinational Division South-East in IRAQ, ottobre 2003 – marzo 2004, Tenente Colonnello.