mercoledì 16 aprile 2014

Crisi dell'Europa Orientale e ripercussioni in M.O.

Crisi ucraina 
La scossa di Kiev arriva in Medio Oriente
Maurizio Melani
07/04/2014
 più piccolopiù grande
La situazione mediorientale, con l'intreccio delle crisi per le quali si erano aperti diversi percorsi negoziali nei mesi scorsi, rischia di risentire sensibilmente della vicenda ucraina e della contrapposizione che questa ha determinato tra Stati Uniti ed Europa da un lato e Russia dall'altro. Su queste prospettive incideranno naturalmente gli esiti dei tentativi di componimento in corso tra statunitensi e russi.

Siria e Iran 
La gestione della crisi siriana, con lo smantellamento dell'arsenale chimico che è ora in affanno, e il negoziato con l'Iran sulla sua capacità nucleare sono basati sull'intesa tra i grandi attori esterni e sulla loro capacità di influire sugli attori regionali e locali riconoscendone e componendone gli interessi laddove ciò sia possibile e tali interessi siano politicamente e moralmente considerabili.

La rischiosa minaccia di intervento militare occidentale in Siria e l'adesione da parte di Bashar Assad alla provvidenziale, ma strumentale, pressione russa e iraniana affinché le sue armi chimiche siano distrutte hanno contribuito al suo rafforzamento e al sostanziale venir meno della possibilità di basare una soluzione negoziata sulla precondizione del suo previo allontanamento, posta quando gli equilibri nel paese erano alquanto diversi.

Al tempo stesso le forze jihadiste hanno consolidato la loro forza sul terreno mentre si sono accentuate le divisioni tra Turchia e Qatar da un lato e Arabia Saudita dall'altro all'interno del campo dei sostenitori dell'opposizione.

Resta il fatto che una riconduzione della Conferenza di Ginevra richiede una forte intesa tra Stati Uniti e Russia (e Iran), oggi più difficile. Soltanto una convergenza sulla priorità di combattere il jihadismo potrebbe modificare questa situazione.

Anche per il negoziato con l'Iran la convergenza e l'unità di intenti tra statunitensi, europei e russi, oltre ai cinesi, è essenziale. Il primo rischio è ovviamente che l'Iran approfitti di queste divisioni per svincolarsi dagli impegni che gli sono richiesti.

Ma in questo caso pagherebbe il prezzo di rafforzate sanzioni occidentali e l'intensificazione della instabilità nella regione il cui superamento sembra essere diventato un obiettivo prioritario per la dirigenza iraniana, sia pure in presenza di contrasti e di resistenze al suo interno, al fine di uscire dall'isolamento e spostare in suo favore gli equilibri nell'area.

È significativo che Teheran non abbia risposto in modo entusiastico alla richiesta russa di solidarietà sull'Ucraina ed abbia contestualmente offerto al pari degli Stati Uniti, con un certo irrealismo per il breve periodo considerati i tempi tecnici necessari, di diventare grande fornitore alternativo di gas all'Europa.

Le risorse del Medio Oriente
I due fattori della lotta al nemico comune jihadista per Occidente e Russia e di una volontà iraniana di diventare attore positivo e stabilizzante nella regione per valorizzare al massimo le proprie potenzialità economiche, non soltanto nel settore energetico, e rafforzarvi la propria influenza, potrebbero quindi ridare alimento alle volontà di grande intesa nella regione e forse anche favorire il mantenimento di un dialogo e di una collaborazione tra occidentali e russi utile ad alleviare le tensioni sul fronte europeo, ridiventato inaspettatamente il principale in questa fase.

Non è chiaro se una piena stabilizzazione del Medio Oriente e la piena agibilità delle sue risorse siano viste come una priorità dalla Russia quale grande esportatore di prodotti energetici, al di la di quanto crisi e processi negoziali possano offrigli per riaffermare presenza e ruolo nella regione. Certamente sembra esserlo per la Cina quale grande importatore di idrocarburi e sostenitore di un nuovo grande corridoio logistico tra Asia ed Europa attraverso il Medio Oriente.

Israele e Arabia Saudita
Restano però da convincere con soddisfacenti e credibili garanzie i due attori regionali più preoccupati da questa prospettiva, e cioè Israele e Arabia Saudita. Riguardo a quest'ultima, che non a caso ha recentemente attivato un canale di comunicazione con la Russia, non è ancora dato di sapere quanta diffidenza si sia potuta effettivamente dissipare nella visita del Presidente Barack Obama a Riad per ridare vigore ad una alleanza che ha profondamente marcato per molti decenni lo scenario energetico mondiale e le vicende mediorientali.

L'alternativa a questa grande intesa sarebbe prevedibilmente la continuazione e l'esasperazione delle crisi in corso con l'estensione del conflitto siriano al Libano, la continuazione di una pericolosa involuzione repressiva in Egitto e rischiosi sviluppi riguardo a una prosecuzione senza controlli del programma nucleare iraniano.

Le forti tensioni che ne seguirebbero avrebbero conseguenze anche sulla situazione afghana e sull'ulteriore peggioramento delle condizioni di sicurezza, di governance e quindi di effettiva ripresa economica in Iraq ove dopo le imminenti elezioni gli accordi inclusivi che si renderanno necessari, siano essi costituiti o meno attorno a Maliki, potranno essere sostenibili e riportare una pace definitiva nel paese soltanto se saranno favorite da tutti gli attori della regione.

Maurizio Melani è Ambasciatore d'Italia
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=2598#sthash.3mczUDkB.dpuf

martedì 8 aprile 2014

Siria: è possibile ancora salvare una Siria multietnica?

Diritto internazionale
Lezione siriana per la sicurezza collettiva
Antonio Bultrini
03/04/2014
 più piccolopiù grande
È ancora possibile salvare la Siria multietnica? Sarebbe già molto se si riuscissero ad alleviare le tremende sofferenze di una larga parte della popolazione civile. La spietata guerra civile in Siria assomiglia ormai ad un “tutti contro tutti”, visti gli scontri tra le stesse fazioni ribelli e il ruolo crescente di quelle radicali.

A tre anni di distanza dall’inizio di questa tragedia, rischiamo di dimenticare che la rivolta contro il regime di Bashar Assad fu inizialmente pacifica e che la brutale risposta del regime (a cominciare dal ricorso sistematico alla tortura) contribuì in modo decisivo allo scoppio della guerra civile.

Responsabilità di proteggere
Se la Russia, storico alleato di Damasco, avesse indotto il regime a più miti consigli (letteralmente), anziché rifornirlo costantemente di armi, e se avesse immediatamente appoggiato iniziative forti di pressione sul regime, quest’ultimo, molto probabilmente, sarebbe stato costretto ad avviare un confronto con l’opposizione.

A sprecare tempo prezioso ha contribuito anche l’errore, da parte di alcuni paesi occidentali, di annunciare che l’uso di armi chimiche sarebbe stata la “linea rossa” da non superare (peraltro, l’uso indiscriminato di armi convenzionali da parte del regime contro la popolazione civile ha mietuto molte più vittime).

La Russia fa valere un principio tradizionale del diritto internazionale, secondo il quale stati terzi possono aiutare un governo, ma non gli insorti (salvo poi fomentare la secessione della Crimea !).

Nel 2005, tuttavia, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite proclamava la responsabilità di ciascun governo di proteggere da crimini internazionali la popolazione civile sottoposta alla sua autorità. Che il diritto internazionale vieti ormai alle autorità di uno stato di massacrare la popolazione civile che vi si trova è indubbio. Meno sicuro è se la comunità internazionale sia obbligata a reagire attraverso il sistema di sicurezza collettiva.

Il Consiglio di Sicurezza, Cds, può nondimeno decidere di intervenire anche in virtù del suddetto principio della responsabilità di proteggere, che figurò del resto fra le motivazioni dell’autorizzazione ad intervenire in Libia tre anni fa.

Interferenze esterne in Siria
È sconcertante che la Russia (spalleggiata dalla Cina) appoggi un regime sanguinario come quello siriano. Occorre tuttavia riflettere anche sul modo in cui altri importanti attori hanno affrontato sia l’intervento in Libia che l’inizio della tragedia siriana: se la finalità fondamentale dei princìpi del diritto internazionale è oggi quella di tutelare pace e sicurezza e di proteggere le popolazioni civili, gli obiettivi degli interventi debbono essere guidati da queste preoccupazioni e non da quella di rovesciare un regime.

Né la soluzione può essere armare gli insorti: l’andamento sul campo ha dimostrato come le interferenze esterne (in particolare da parte di vari membri della Lega araba) abbiano finito con l’accentuare la dimensione interetnica del conflitto (sunniti contro sciiti).

La comunità internazionale dovrebbe spegnere un conflitto sul nascere (e mostrare la massima determinazione con chi si azzardi a commettere crimini contro la popolazione civile), non gettare benzina sul fuoco.

Il problema è anche istituzionale. Com’è noto, il potere di veto permette ai membri permanenti del Cds di fare il bello e il cattivo tempo anche a fronte di sofferenze atroci come quelle a cui si assiste in Siria.

È sempre meno tollerabile che questioni cruciali - a volte per la vita di milioni di persone - siano in balìa degli interessi di questo o quello fra i cinque membri permanenti. Nel caso della Siria, persino l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha rimproverato il Cds della sua inerzia.

E quand’anche quest’ultimo riesca ad autorizzare un intervento, è difficile imporre agli stati di restare entro i limiti (legali) di ciò che è stato autorizzato. In Libia, dall’obiettivo dichiarato di proteggere la popolazione civile di Bengasi si arrivò (su impulso soprattutto di Francia e Gran Bretagna) ad un appoggio a tutto campo agli insorti e al rovesciamento del regime, ovvero un esito non esplicitamente contemplato dalle risoluzioni approvate dal Cds.

La rigidità di Russia e Cina nel caso della Siria non è affatto giustificabile, ma è in parte favorita da quel che è accaduto in Libia e dalle reticenze che questo ha suscitato anche presso altri, importanti paesi.

Riforma del Consiglio di sicurezza
Occorre dunque riformare il Cds e ridimensionare il potere di veto dei membri permanenti; passare dalla mera discrezionalità all’obbligo di adottare tempestivamente misure adeguate per affrontare non solo le minacce alla pace e alla sicurezza, ma anche le violazioni massicce dei diritti umani; sottoporre ad un controllo internazionale le operazioni condotte dai singoli stati in modo che restino entro i binari di quanto è stato deciso a livello collettivo.

Peraltro, quanto più tempestivamente si interviene con misure incisive, tanto più alte saranno le chance di evitare un intervento militare. E se le circostanze dovessero far apparire la via militare come l’unica efficace, quanto più tempestivo e deciso è l’intervento, tanto maggiori saranno le possibilità di prevenire massacri (come insegnano - in male - la Bosnia o il Ruanda).

Si tratta notoriamente di una sfida difficilissima, anche perché per modificare lo statuto delle Nazioni Unite occorre l’approvazione dei cinque membri permanenti! Una riforma del genere presupporrebbe inoltre una maggiore disposizione della comunità internazionale ad assumersi pienamente le proprie responsabilità in materia di pace e diritti umani.

Non sappiamo quanto si riuscirà ancora a salvare di ciò che resta della Siria multietnica. Per evitare che tragedie simili si ripetano occorrerà nondimeno ripensare senza ipocrisie tanto l’attuale sistema di sicurezza collettiva quanto il modo “disinvolto” in cui sono state affrontate alcune delle maggiori crisi degli ultimi anni.

Antonio Bultrini è professore di Diritto Internazionale e Diritti Umani, Università di Firenze.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=2594#sthash.4mc2TJue.dpuf